Di Andrea

Dall’introduzione delle carriere alias nelle scuole e atenei all’istituzione di gruppi di ricerca impegnati in studi pseudoscientifici sui “bambini-trans”, passando per l’attivazione di veri e propri corsi universitari di teoria queer, il fango dell’ideologia gender è sempre di più a contatto con giovani e studenti.

L’influenza crescente del movimento Lgbtq, e del relativo impianto ideologico, sui luoghi della cultura e dell’istruzione porta ad una necessaria opera di riflessione critica sui fondamenti di questa visione che, pur autorappresentandosi come scientifica e oggettiva, altro non è che espressione di un mero “desiderio politico” vuoto di contenuti.

Un miscuglio di tesi che, estrapolate ad hoc e staccate dai propri contesti più generali solamente per avvalorare le proprie assunzioni, unisce una certa psicanalisi degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, femminismo della seconda ondata, marxismo, post-strutturalismo e decostruzionismo filosofico.

  • LA CRITICA OMOSESSUALE DI MIELI

Uno dei precursori di tutto quel mondo che, dalla fine degli anni ’90 in poi, farà poi riferimento alla variegata teoria queer è senza dubbio Mario Mieli, attivista e filosofo tra i primi in Italia ad aver affrontato la tematica dei cosiddetti studi di genere. Il suo principale testo Elementi di critica omosessuale del 1977 ha avuto, nel tempo, grandissima influenza, anche internazionale, su tutto il panorama legato all’ideologia gender.

Il saggio, ovvero la tesi di laurea dello stesso Mieli, è rivolto principalmente all’ambiente dell’estrema sinistra e della contestazione fine anni ’70. In questo senso, i temi all’interno dell’opera vengono affrontati attraverso una chiave interpretativa che unisce marxismo e psicanalisi e, più in generale, alla luce di un’introspezione soggettivistica che tende ad universalizzare l’esperienza dell’autore.

Mieli parte da una deliberata assunzione, ovvero dal presupposto che vede il pansessualismo o transessualismo (inteso alla maniera del polimorfismo sessuale di Freud più che nell’accezione moderna del termine) come condizione naturale dell’essere umano precedente alla divisione sessuale, la quale avviene in un secondo momento con un processo di socializzazione, o edu-castrazione, violento.

Questa edu-castrazione avrebbe come effetto la perdita di tale condizione di indifferenziazione e l’irrigidimento in una stretta norma sociale, da qui il progetto politico di liberazione ed emancipazione dell’intera umanità scrollandosi di dosso questa castrazione: ridare la libertà oltre la socializzazione.

L’iscrizione, a torto, di Mieli nell’alveo dei pensatori marxisti sarebbe infatti data dall’idea dell’edu-castrazione come premessa per irrigidimento sociale necessario allo sfruttamento del Capitale. D’altra parte, però, il posizionamento dell’eros a livello pre-strutturale, ossia come premessa dei rapporti di produzione, risulta inaccettabile nell’ottica marxista della dialettica struttura-sovrastruttura (produzione-rapporti sociali).

La completezza originaria assunta nel saggio sembrerebbe fare maggiormente riferimento ad uno stato di natura ideale più che ad una condizione biologica o ontologica, lo stesso richiamo a categorie psicanalitiche per intendere un’originarietà mitica naturale di transessualità o pansessualità trova diverse problematiche. Il polimorfismo sessuale di Freud, infatti, si riferiva non ad una sorta di datità iscritta nella condizione umana ma ad una alla condizione di plasticità delle forme individuali di sessualità in base a stress, ansia e nevrosi.

Mieli porta così la propria impostazione teorica (l’assunzione della condizione pre edu-castrazione e pre-sessualizzazione come naturale) direttamente verso la necessità di eliminare totalmente la norma eterosessuale, concepita come fondamento del sistema capitalistico. L’utilizzo di categorie psicanalitiche per spiegare questa liberazione osserva il comportamento sociale alla stregua di una sublimazione della tensione derivata dalla negazione di una supposta omosessualità o pansessualità originale, viste come condizioni da ritrovare necessariamente per emanciparsi.

Il transessualismo viene visto non solo come strumento di liberazione individuale ma come un vero e proprio strumento politico, da qui la volontà di distruzione di ogni tipo di struttura organizzata o normatività.

Questo impianto cancella completamente l’idea di donna e di uomo affidandosi al ritorno semi religioso ad una pre-categorizzazione di sessualità assoluta, anticipando di diversi anni la riflessione sul rigetto della bisessualità portata in auge successivamente dai gender studies.

Mieli, nel suo solipsismo delirante, arriva addirittura a concepire derive feticiste e comportamenti ascrivibili alla pedofilia, necrofilia o coprofagia come esperienze redentive oltre all’assunzione dell’eterosessualità nella schiera delle devianze mentali (nonostante a livello storico-culturale sia sempre appartenuta alla quasi totalità delle persone).

Alla fine, tutto il discorso intavolato da Mieli non dimostra mai nulla ma, semplicemente, proietta la sua stessa biografia sul piano generale. Il continuo riferimento al precosciente interiore (biologicamente mai esistito ma frutto solo di un desiderio idiosincratico) mostra l’impossibilità dell’autore di sostenere la fatica dell’esistenza (dell’essere maschio) e il peso della scelta. Il tipo umano che ricerca una condizione primordiale di naturalità transessuale è fondamentalmente in fuga dal mondo, in quanto non riesce a completarsi e identificarsi per ciò che è (parricidio).

Viene così rigettata la dimensione tragica della scelta, ossia essere qualcosa rispetto a tutto il resto, darsi una forma e dare forma al mondo.

  • COS’È IL GENERE? IL FANGO DI UN’IDEOLOGIA

All’interno della complessa teorizzazione legata agli studi di genere, il concetto stesso di “genere” viene inteso come elemento costitutivo di relazioni sociali e rapporti di potere.

Da questa concezione deriva anche l’idea che riduce la base biologica a mera illusione collettiva, svincolando così identità di genere da dato biologico, lo spirito dal fisico, l’anima dal corpo. Il rifiuto per ogni sorta di determinazione sessuale abbraccia da una parte una concezione universalistica dell’essere umano dall’altra il trionfo della soggettività dove ognuno si costruisce dal nulla sulla base delle proprie spinte emozionali.

La dissociazione sesso-genere distingue quindi aspetti biologici da aspetti psicologici, assumendo di fatto un passaggio problematico dalla natura psicologica del genere alla sua interpretazione come entità culturale: dall’idea che il genere sia un costrutto culturale imposto su malleabile base biologica per una gerarchia binaria maschio-femmina consente di intendere la decostruzione come strumento politico.

Questa visione della distinzione maschile-femminile come esito di uno sfruttamento storico non è altro che una vuota supposizione.

Dai teorici del gender, sulla scia di un certo anti-essenzialismo postmoderno, il binarismo sessuale viene ricondotto a costrutto irreale senza alcuna realtà sostanziale ma esito solamente di categorie linguistiche. Come già osservato nella riflessione sulle tesi di Mieli, a supporto di ciò vengono addotte teorie psicanalitiche ad hoc come il polimorfismo sessuale originario di Freud o l’ingresso dell’infante nell’ordine simbolico binario di Lacan.

In questo impianto teorico, ogni riferimento ad un corpo biologico è già di per sé filtrato da significati culturali (sesso biologico sempre definito dal genere), come assunto dall’operazione di de-essenzializzazione e de-naturalizzazione di Judith Butler.

Il genere diventa così un performativo, non un’espressione che nomina ma che fa essere il proprio significato, e, di conseguenza, il corpo si trasforma in una performance, una fabbricazione priva di statuto ontologico proprio prodotta attraverso gesti o atti.

Femminilità e mascolinità diventano semplici travestimenti del carattere performativo del genere artificialmente plasmato dal “dominio eterosessuale”. La teoria queer non fa quindi altro che dissolvere ogni opposizione e fluidificare il genere sopprimendo ogni condizionamento storico-culturale.

Questa operazione s’instaura perfettamente in quello che è il trionfo della ragione liberale, all’interno del quale ogni identità o normatività viene sostituita con un richiamo alla sfera dell’arbitrio soggettivo. La stringente visione di questa identità psicologica come prodotto culturale presuppone una schematica opposizione tra natura e cultura: una natura intesa come datità materiale statica alla quale si sovrappone dall’esterno una dimensione soggettiva. Un idealismo soggettivo che vede l’elemento psicologico come unico contenitore di verità e disponibile ad essre arbitrariamente plasmato.

Il corpo biologico, in quanto concetto culturale, viene così subordinato alla nozione culturale di genere.

Ciò che la teoria queer e gli studi di genere non vedono è la naturale predisposizione della specie umana all’apprendimento attraverso disposizioni naturali. Nonostante il genere si sia esteso a tutte le caratteristiche tradizionalmente riconosciute nella differenziazione sessuale, l’esistenza di differenze in numerose caratteristiche biologiche e comportamentali tra i due sessi è acclarato da tempo.

La complementarietà biologica tra maschio e femmina non può essere ridotta a mera distinzione sociologica dal momento che è fondamentale per la riproduzione umana, così come l’assenza di categorie naturali assolute e dogmatiche non è una ragione sufficiente per affermare l’insussistenza di tali categorie o l’inessenzialità della differenza sessuale o biologica.