Di Chiara
La primavera è da sempre associata alla rinascita, al ritorno della luce, all’allungarsi delle giornate.
Nelle civiltà antiche assumeva un importanza tale da scandirne il calendario, coincidendo con l’inizio del nuovo anno astronomico, con l’entrata del sole nella costellazione dell’ariete.
Era così per i Romani, che in tale occasione festeggiavano i Matronalia, celebrazioni della dea Giunone Lucina, protettrice delle donne, della gestazione, del parto e del matrimonio. Le donne romane recavano offerte al tempio a lei dedicato sull’Esquilino, edificato, secondo Varrone, da Tito Tazio, re dei Sabini, a seguito dell’interruzione della guerra tra i romani e gli stessi Sabini grazie all’intervento di alcune donne coraggiose.
Il calendario romuleo si componeva di dieci mesi (sarà Numa Pompilio ad aggiungere gennaio e febbraio) di cui il primo era appunto marzo, periodo di rinascita della natura e dello spirito. Durante questo mese terminava la pausa invernale dalle battaglie e si poteva tornare a fare la guerra. Così come la natura fiera risorge, lo stesso facevano Roma e il suo esercito.
La religione romana nasce da un insieme di credenze e rituali diversi, in particolar modo quelli preimperiali. Prima del I secolo le influenze esterne erano moltissime; basta riflettere sui miti delle origini, dove latini, etruschi, osco-umbri e le altre popolazioni italiche si incontrano, creando insieme quella che diventerà la città eterna. Il ver sacrum rientra perfettamente all’interno di questo schema.
Per Paolo Diacono era un sacrificio che prevedeva di immolare ad una divinità uomini e animali nati in primavera, affinché proteggesse la comunità da un pericolo. Gli animali venivano macellati, mentre i nascituri venivano consacrati alla divinità e una volta raggiunta la maggiore età, con il capo velato, venivano accompagnati ai confini e allontanati dalla Patria di origine.
Per Dionigi di Alicarnasso, invece, il fenomeno avveniva a seguito di un esplosione demografica o per problemi legati alla produzione agricola e al sostentamento della popolazione.
Parla di due tipi di ver sacrum: uno avveniva con gioia, relativa ad una promessa fatta ad una divinità in tempo di guerra o per un’esplosione demografica; un altro, invece, praticato con sofferenza, per ottenere dal dio un intervento che potesse salvare la comunità dalla sofferenza.
Tutte queste “migrazioni” erano caratterizzate dalla presenza di un animale totemico, un dio che veglia sugli allontanati alla ricerca della nuova Patria.
Gli spostamenti avvenivano in maniera ordinata e i viaggiatori imitavano i movimenti e il comportamento di un animale guida per ricevere protezione durante il cammino.
Da Strabone sappiamo che il nucleo sabino che avrebbe dato vita ai Sanniti era stato condotto da un toro, mentre Flacco scrive che quella che si è concretizzata nei Piceni è stata guidata da un picchio; tutti animali sacri a Mamers, dio osco-umbro che corrisponde al Marte dei Latini.
Dalla presenza dei totem derivano probabilmente le insegne militari romane caratterizzate da effigi animali. È palese, quindi, la correlazione tra il ver sacrum e il mondo militare; sempre Dionigi di Alicarnasso afferma che i giovani si allontanavano armati dalla loro Patria di origine.
Il picchio, il lupo e il toro sono animali fondamentali nella religione romana delle origini.
Il primo animale richiama la figura divina di Picus, uno dei primi re romani del periodo “eroico”. Era figlio di Saturno, dio dell’agricoltura e della semina, e Pomona, ninfa protettrice delle piante da frutto. Secondo una delle versioni del mito, la maga Circe si innamorò di lui e, per essere stata respinta, lo avrebbe trasformato in picchio. Figlio di Picus fu Fauno, a sua volta padre di Latinus, fondatore del popolo dei Latini, gli avi dei Romani.
Già nella mitologia indoeuropea era l’uccello del fuoco e del fulmine, simboleggiato dal segno rosso che lo contraddistingue e dal fatto che il suono che produce somiglia a quello del legno quando viene sfregato per accendere il fuoco.
Il toro, già animale divino nelle religioni orientali e in quella greca (minoica), venne utilizzato, in particolare nell’epoca della Guerra Sociale, come simbolo della Lega sannitica. Era divenuto quindi un elemento identitario: solo la sua rappresentazione richiamava al popolo a cui era legato.
Per quanto riguarda il lupo, era l’animale guida di Irpini e Lucani, altri due dei popoli che compongono la compagine osco-umbra. Inoltre il lupo, nella sua versione femminile, non può che farci pensare a Roma. E anche la lupa capitolina rientra in questa storia, poiché fu proprio Picus ad aiutarla a crescere i gemelli Romolo e Remo.
Il rapporto strettissimo tra mondo animale e mondo divino, quindi, serve ad acquisire gli elementi necessari per capire la civiltà romana e tutte le sue peculiarità.
Il ver sacrum è un’altra dimostrazione di quanto il mondo antico sia complesso e di quanto Roma abbia assimilato dalle popolazioni a lei vicine. Ogni popolo aveva la consapevolezza della propria identità e Roma, da parte sua, assorbì tutte queste diversità, rielaborandole secondo i propri principi basilari. La conoscenza dei popoli italici, quindi, è assolutamente fondamentale per comprendere a fondo la futura caput mundi.
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