Di Chiara

La sera del 21 aprile 1927, il Gran Consiglio del Fascismo deliberò l’entrata in vigore della Carta del Lavoro. La scelta della data non fu casuale: coincideva con il Natale di Roma, definito da Mussolini come “data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia”.

Per quanto ad oggi sia perlopiù dimenticata, è da considerare come la pietra miliare del diritto del lavoro italiano: il dibattito che animò fu vivace e a tratti infuocato coinvolgendo intellettuali del calibro di Rocco, Bottai e Gentile.

Il lavoro è sempre stato una delle tematiche alla base dell’intera dottrina economica e, soprattutto sociale, del Fascismo. L’origine probabilmente risiede durante le fasi giovanili della vita del futuro Duce, quando iscritto al Partito Socialista si batteva per il miglioramento delle condizioni lavorative dei braccianti agricoli romagnoli.

Già dalla fondazione dei Fasci di Combattimento nel marzo del 1919 erano chiari gli obiettivi: nel programma di San Sepolcro i Fascisti volevano la giornata lavorativa di 8 ore, i minimi di paga e le assicurazioni riguardo l’invalidità e sulla vecchiaia, abbassando l’età massima lavorativa. Erano elencati sotto il punto del problema sociale: per il Fascismo il lavoro è “il realizzarsi pieno della personalità sociale dell’uomo”, svincolato da qualsiasi individualismo.

Nel programma del PNF, nel 1921, si posero le basi del sindacalismo Fascista: si parla di corporativismo;  ispirato dall’azione di Filippo Corridoni, il Duce gli riserva il ruolo di “pietra angolare dello Stato Fascista” e il merito dell’originalità della rivoluzione, identificando e differenziando il regime: “lo Stato Fascista o è corporativista o non è Fascista”.

La lotta italiana al liberalismo e al capitalismo iniziò con 30 punti pragmatici.

La prima sfida fu lanciata dalla Carta del Lavoro alla concezione liberale secondo cui lo Stato è considerato un mezzo o un inerte organo regolatore. La Nazione non deve intendersi come la somma aritmetica degli individui che la costituiscono, e di conseguenza, il massimo benessere collettivo deve coincidere con il benessere dei singoli insieme considerati.

Inoltre, “il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale”. È considerato alla base anche dei diritti costituzionali, non dovuti dal possesso della cittadinanza, ma ottenuti con l’assoluzione dei dovere del lavoro: si parla di “etica del dovere”, sulla scia della dottrina mazziniana, presente anche nella concezione di Nazione.

Si parla di un coinvolgimento reale degli italiani al processo decisionale attraverso il sistema delle corporazioni, partendo dallo smembramento della dicotomia pubblico/privato, rea di aver creato due classi di cittadini distinti in funzionari e non funzionari. Una nazione per essere libera deve liberamente autogovernarsi attraverso la volontà di tutti i cittadini e l’abbaglio democratico risiede nell’utilizzo del suffragio universale come unico strumento valido. 

Quindi, Nazione , Stato, Lavoro, Lavoratore, Sindacato, sono le parole d’ordine intorno alle quali si costruisce il nuovo ordinamento e dalla cui sintesi scaturisce il nuovo sistema giuridico.

Un altro merito della Carta del Lavoro fu la creazione di un impalcatura che avrebbe portato alla creazione di istituti giunti in larga parte intatti fino a noi: nel 1933 vedono la luce Inps e Inail, qualche anno più tardi anche i contratti collettivi nazionali. Nel 1936 nasce anche l’Iri, simbolo dell’intervento dello Stato nella produzione economica.

Gli stessi problemi italiani si riscontravano anche in Gran Bretagna, dove Oswald Mosley, fondatore dell’Unione britannica dei Fascisti, denunciava delle condizion lavorative precarie, eredi delle politiche della Rivoluzione Industriale: “i lavoratori si lamentano che non viene loro permesso di contribuire alla creazione di questo nuovo mondo, ma anzi sono considerati ingranaggi da mettere in uso quando qualcuno può utilizzarli per i propri scopi di lucro, per poi essere gettati nel mucchio dei rottami. Da questa consapevolezza derivò la nascita delle Trade Unions, che coniugavano l’unità e l’azione collettiva.

Inoltre, affermò nei suoi scritti come lo Stato corporativo sarebbe stato capace di affrontare i problemi che intasano il mercato del lavoro industriale, come la concorrenza straniera, la razionalizzazione, il decadimento delle vecchie industrie, la nascita di nuove fabbriche e il trasferimento del lavoro.

Nonostante siano passati quasi cento anni dalla Carta del Lavoro, è anacronistico che le problematiche riscontrate all’epoca siano le stesse di oggi.

Nonostante Mussolini ne parlasse già nel 1919, in Italia ancora non si è raggiunta una parità lavorativa; ancora non si hanno paghe commisurate al costo dei servizi e nel pieno rispetto delle condizioni dignitose di vita degli italiani; ancora ci sono condizioni lavorative spesso illegali che nel 2023 hanno portato a circa 3 morti sul lavoro ogni giorno.

Quindi, siamo sicuri che il problema fosse l’abolizione dei festeggiamenti del 1° maggio da parte delle istituzioni fasciste? Noi che possiamo “festeggiare” questa data siamo sicuri di avere condizioni lavorative migliori di quelle dei nostri nonni?