di Michele
Che la politica non sia più politica ma tifo da stadio è un luogo comune tra i più diffusi. In questo giugno diviso tra elezioni per il Parlamento europeo ed Europei di calcio, non potevamo certo risparmiarci dal mettere sotto la lente d’ingrandimento questa sorta di regina delle frasi fatte del dibattito pubblico italiano.
Un’analogia che nasconde sicuramente un certo snobismo, quasi che il Mentana di turno si senta un Seneca a inorridire di fronte allo spettacolo di sangue, ferocia e volgarità delle arene. In questo apparente prendere le distanze c’è anche l’ambizione di mostrarsi imparziali, di essere gli arbitri della contesa. Oltre a perpetuare un nostalgicismo fuori tempo massimo per i modi compassati della Prima Repubblica e per i suoi protagonisti. Il tutto condito da qualche commento sprezzante al populismo e al leaderismo dell’attuale scena politica che – se siete Berizzi – potete trasformare nel consueto allarme fascismo.
In questa stanca riproposizione del già detto il tifo è ovviamente ridotto a termine negativo, simbolo delle derive che colpiscono la democrazia. Se è vero che la politica attraversa una fase di polarizzazione, semplificazione e de-ideologizzazione, il tifo da stadio è davvero il paragone adeguato? È davvero l’eccesso di appartenenza del tifoso ad aver rovinato la politica?
Il tifo è in realtà un fenomeno complesso, che anzi, a differenza della politica, sembra voler andare verso una maggiore complessità. Tanto che, nello sport di gran lunga più seguito, un’affermazione come quella dell’ex tecnico juventino Massimiliano Allegri “il calcio è un gioco semplice” è stata accolta come una sorta di eresia, come sfida ai dogmi imperanti. Le analisi, le statistiche, gli esperti, si moltiplicano nel dibattito calcistico, con un grado di approfondimento che può sembrare quasi eccessivo. Una razionalizzazione del calcio che ha come contraltare un rinnovato interesse per i suoi aspetti più sentimentali e romantici, almeno a livello estetico. A rimanere, per certi versi, fuori è il mondo ultras. Ma su questo torneremo poi.
La politica senza più contenuti si ridurrebbe a tifo, cioè appartenenza fine a sé stessa. Cosa che al contrario è contraddetta dalla volatilità degli elettorati. Se qualcosa manca alla politica attuale è proprio il senso di appartenenza, sostituto da simpatie più o meno umorali per il leader o per la parola d’ordine di turno. A differenza di come viene vissuto il dibattito politico, il quale ragiona per categorie assolute, essere tifoso è anche il riconoscimento della propria parzialità. Tifare questo e non quello è sempre un atto arbitrario, una scelta d’imperio, che si poggia su ragioni spesso inafferrabili e che mai può ambire ad essere universale. Ciò è garanzia di quella pluralità e reciprocità, o – per dirla in termini antiquati – di quella cavalleria, oggi assenti.
Il senso di appartenenza viene generalmente marginalizzato. In politica come allo stadio viene preferito il simpatizzante/tifoso occasionale e messo da parte il militante/ultras. Casomai, è al tifo disimpegnato del primo che può essere paragonata la politica. Ma questo è un fenomeno che attraversa entrambi i mondi, riducendone il radicamento e la complessità. Infatti, è un fraintendimento comune quello per il quale una maggiore polarizzazione equivale a una maggiore estremizzazione. Il livore che accompagna l’attuale stagione politica, la quale s’incammina verso un bipolarismo ancora più maturo rispetto a quello del ventennio berlusconiano, è figlio dell’appiattimento dei due poli fra loro: sempre più indistinguibili, scalciano e gridano sui pochi attriti rimasti, senza che tutto questo coinvolga una vera e propria visione del mondo.
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