Di Andrea
Con il mese di marzo sono iniziate in tutta Italia le famigerate prove Invalsi, e con loro l’annoso dibattito sulla reale funzionalità delle stesse all’interno del percorso scolastico. Da diverso tempo ormai, infatti, il test è rivolto a tutti gli studenti del II e V anno delle scuole superiori (oltre II e V anno delle elementari e ultimo anno delle medie) e, di anno in anno, ha assunto sempre più importanza nella valutazione degli studenti, maturità compresa.
L’ingresso delle prove Invalsi all’interno del sistema scolastico italiano, già progettato dall’Ue nel suo processo di interessamento ai servizi pubblici di inizio 2000, si ha per la prima volta (a livello sperimentale) in seguito al clima creatosi dopo la riforma Berlinguer dell’istruzione prima e l’opera di Tullio De Mauro poi a inizio del nuovo secolo. In questo quadro vennero introdotti i primi concetti base per la progressiva aziendalizzazione e privatizzazione della scuola, di cui le prove Invalsi sono una componente decisiva.
Tutti noi studenti sappiamo bene cosa siano le Invalsi: un rilevamento simultaneo nazionale a scopo statistico, ovvero test a crocette con risposta multipla che nulla hanno a che fare con il contesto delle materie di orientamento. Tralasciando gli aspetti specificatamente didattici sulla difficoltà (o impossibilità) di valutazione di questi test standardizzati (non pensati per valutare le abilità dei singoli) che riducono il processo educativo ad una mera sequenza nozionistica e asettica e la relativa disumanizzazione degli studenti i quali vengono identificati solamente da una matrice numerica (dalla quale, tra l’altro, è semplicissimo superare il finto anonimato della prova), l’Invalsi altro non è che uno strumento per perseguire l’obbiettivo di aziendalizzazione e uniformità del sistema scolastico. Il test Invalsi determina politiche scolastiche e d’istituto, programmi, modalità e oggetto dell’insegnamento attraverso un processo di assoluta semplificazione della didattica. La tendenza è quella di relegare sempre meno libertà di spazio per permettere agli studenti di esprimersi e cimentarsi in una elaborazione favorendo risposte chiuse e percorsi per “competenze” che imbrigliano e limitano il pensiero in compartimenti stagni.
Dopo che, nel 2017, la “Buona Scuola” di Renzi impone di fatto l’accostamento dei risultati delle Invalsi al voto dell’esame di Stato, proprio ad inizio marzo 2024 un decreto ministeriale (Dl 19/2024) ha rilanciato l’obbligo di inserimento di questi risultati nel curriculum scolastico. In particolare, finiranno nell’E-Portfolio, uno strumento digitale che servirebbe ad “accompagnare gli studenti durante tutto il percorso scolastico per aiutarli a fare scelte consapevoli”. Così facendo il rischio è quello di avere studenti completamenti plasmati su di un sistema basato sulla flessibilità, precariato e mancanza di senso. Tutto questo ad appannaggio dei privati e delle grandi multinazionali che, come vediamo nella riforma Valditara, hanno sempre più potere.
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