di Pasquale
Si è chiusa l’11 febbraio la mostra Tolkien. Uomo, Professore, Autore ospitata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ed è ormai tempo di bilanci.
Parliamo di numeri: tra il 15 novembre (data di apertura) e il 14 dicembre, in soli 26 giorni, l’esposizione ha fatto registrare 28.045 visitatori, mentre dal 15 novembre al 24 gennaio 2024 se ne registrano 60.544. Nell’ultima comunicazione del Ministero della Cultura si parla di ben 80.226 ingressi in soli tre mesi. Si tratta di cifre di molto superiori alla media per la Galleria Nazionale.
Un innegabile successo di pubblico, nonostante le polemiche iniziali, che si deve a diversi fattori: l’interesse diretto del ministro della Cultura, una efficace campagna pubblicitaria, l’entità dell’investimento: ben 250.000 euro. Non bisogna poi trascurare il fondamentale contributo pubblicitario “a gratis” di Repubblica e di tutti coloro che osteggiando l’iniziativa non hanno fatto che alimentare l’interesse generale per la stessa. Ci dispiace davvero! Diversamente da quel che paventavano giornaletti e insignificanti personaggi riconducibili all’intellighenzia di sinistra, non si è trattato di una mostra politica. Questo è un bene, in primo luogo perché Tolkien non va rivendicato, ma applicato; e in secondo luogo perché le polemiche non hanno fatto che confermare una cosa: vedere fascismo e operazioni ideologiche ovunque è il frutto della peggiore ideologia censoria, e questo isterismo ha un preciso colore politico.
I numeri però non sono tutto, e forse costituiscono uno dei pochi aspetti positivi della mostra che si è da poco conclusa. Un giudizio di merito sarà, con grande dispiacere di chi scrive, molto meno lusinghiero e non potrebbe essere altrimenti.
Partiamo dal dire che tutta l’esposizione pareva compulsivamente incardinata su un insolito feticismo per l’oggettistica. L’impressione che si aveva in ogni sala, dall’inizio alla fine del percorso, era che si volesse riempire tutto lo spazio possibile con oggetti gettati alla rinfusa senza un preciso criterio.
Molto interessanti le prime sale – quelle relative all’uomo Tolkien – e straripanti di materiale, tra fotografie, lettere autografe, libri, documenti, ma l’allestimento aveva un’impronta eccessivamente didascalico. A fronte di oggetti dallo scarso impatto visivo, poco evocativi, le didascalie erano numerosissime, perlopiù superficiali e inutilmente lunghe. Più che osservare, bisognava leggere note interminabili. Non si è riusciti ad andare oltre un’arida genealogia e la raccolta di oggetti personali, spesso presentati senza adeguato contesto e per questo incapaci di emozionare, a volte perfino insignificanti. Nemmeno il rapporto tra Tolkien e la sua amata Edith, che ispirerà Luthien, viene particolarmente approfondito. Si è voluto ridurre tutto a sterile biografismo. Insomma, dell’uomo non si percepiva quasi nulla.
L’impressione che si aveva nelle sale riguardanti il Tolkien professore e autore innamorato dell’Italia era pressappoco la stessa: tantissimo materiale interessante ma nulla di chiaramente definito; si è detto tutto senza spiegare quasi nulla. Cosa lega Beowulf a Tolkien, per esempio? In che modo e in quale misura la mitologia norrena ha influenzato l’opera tolkieniana? Qual è il nesso tra la copia dei Paradise Lost esposta e il professore di Oxford? E potremmo continuare all’infinito.
Decisamente più suggestiva la sala che ospitava edizioni da tutto il mondo delle opere di Tolkien, oltre a diverse illustrazioni de Lo hobbit, mentre abbiamo trovato discutibilissima e certamente superflua la parete con giudizi sull’opera e sull’autore da parte di personaggi improbabili, quando potevano essere proposte letture di studiosi seri, che certamente non mancano.
Ancora note dolenti: la raccolta di disegni e quadri a tema Terra di Mezzo tremendamente deludente. Ci si aspettava di vedere schizzi, bozze e disegni autentici di Tolkien, ma niente. Anche in questo caso una mole spropositata di materiale eterogeneo buttato lì senza ordine, come a fare numero, senza una organizzazione tematica né cronologica. In una prospettiva più “filologica” per questa sezione è possibile, tuttavia, una rivalutazione: i disegni e le opere si rivelano utili per formarsi un’idea di come si configurasse l’immaginario tolkieniano prima che venisse cristallizzato dai film di Peter Jackson e, in misura minore, cosa di quell’immaginario la trilogia cinematografica avrebbe trasportato sullo schermo. Erano presenti anche riferimenti alla sfortunata versione animata di Bakshi (1978). Ancora: la storia editoriale si ferma all’edizione Rusconi e nessun accenno alla copiosa letteratura critica sull’opera tolkieniana.
Si poteva addirittura evitare la sala del Tolkien fenomeno pop, che non rende minimamente l’idea dell’impatto che ebbe e che ha tuttora l’opera del professore a livello globale. Locandine dei film (magari spiegarne la storia, confrontarli ai libri, ecc.), qualche gioco da tavola, dischi decontestualizzati (lo spieghiamo perché i Led Zeppelin?), qualche riproduzione di abiti di scena, Pino Insegno, niente di che. Più volte durante la visita mi sono sforzato di trovare una trama che sottendesse l’esposizione, una chiave di lettura per interpretarla in modo unitario, ma senza successo. Una disomogeneità che disorientava, un senso generale di incompletezza che dava l’idea di un allestimento superficiale, raffazzonato e frettoloso.
Sangiuliano aveva annunciato una mostra allestita con rigorosi criteri “scientifici”, ma purtroppo di scientifiche c’erano solo le velleità. Eppure, l’avallo dell’Università di Oxford e i nomi dei curatori avevano fatto sperare in qualcosa di meglio. Attenzione, qui non si critica l’iniziativa in sé, che reputiamo assolutamente encomiabile, coraggiosa e significativa, in quanto ha davvero e con successo riportato Tolkien in Italia. Anzi, speriamo di vederne molte altre di questo genere! Naturalmente ci sono ulteriori elementi da considerare, molti dei quali decisamente positivi: si tratta in assoluto della prima mostra su Tolkien nel nostro paese; è stata esposta una quantità non trascurabile di oggetti inediti e rari; lo sforzo immenso profuso nella realizzazione dell’iniziativa era assolutamente ben visibile. Per di più non trattandosi di una normale esposizione di opere d’arte è comprensibile che si possa commettere qualche errore nel conciliare materiali tanto disparati e linguaggi e medium così eterogenei.
In conclusione, se la mostra poteva risultare interessante per coloro che si avvicinavano per la prima volta all’opera del professore (e questo in sostanza è l’importante) per quelli che lo hanno letto e studiato approfonditamente non può dirsi lo stesso: nessun apporto significativo, anzi mancava tanta roba. Intanto è un buon inizio. Un’occasione mancata che comunque ha fatto scoppiare più di qualche fegato, da Artribune a Exibart a Wu Ming, ed è giusto oltre che divertente.
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