Di Chiara 

Non è raro ad oggi trovarsi dinanzi a titoli di giornale come “ La stanza di Giulia Cecchettin: i libri, i disegni iniziati, il tempo fermo alla sera in cui è sparita” oppure “Chiara Ferragni torna da Parigi all’improvviso per “un’emergenza”. Fedez sarebbe ricoverato in ospedale”. 

Sembrano non avere niente in comune, ma sono entrambi un esempio di “spettacolarizzazione del dolore”. 

Non si racconta il dolore, non lo si narra al fine di aiutare con la propria esperienza chi può trovare ristoro in quello che si vive o si è vissuto; tutto deve essere esagerato a livello comunicativo, ostentato nel vano tentativo di esorcizzarlo e renderlo meno grave e amaro. 

L’utilizzo di immagini forti, rappresentanti realtà tragiche infatti, da un lato rendono partecipi gli utenti di una realtà distante a cui non potrebbero altrimenti accedere, e dall’altro può sconfinare nella cosiddetta “pornografia del dolore”. 

Che sia dovuto ad una morte, ad una malattia o ad un fatto drammatico, sembra quasi che si voglia condividerlo con il mondo, un modo per confrontarsi o trovare quell’appoggio morale di cui si sente il bisogno, anche se in alcuni casi lo sconforto dovrebbe essere vissuto in modo intimo e privato e non reso un mero intrattenimento da avanspettacolo.

Si è persa la capacità di vivere il proprio dolore con sé stessi, come un’emozione privata, senza che questo venga sbandierato ai quattro venti: ogni emozione o evento deve essere edulcorato. 

La verità dietro questa perdita è che il mondo digitale sta cambiando radicalmente i valori, l’intimità e il modo di affrontare la sofferenza; tende a rendere ogni evento provocato o subito un circo, come se dietro non ci fossero persone in carne ed ossa. 

Tutto è spettacolo e uno degli esempi più eclatanti è stato il funerale di Giulia Cecchettin, ragazza ventiduenne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta; non è difficile trovare articoli delle maggiori testate giornalistiche (La Repubblica, La Stampa, etc.) in cui si parla di dettagli futili, solo per la necessità di dare in pasto ad un pubblico sempre più morboso delle notizie, senza minimamente rendersi conto di stare dando vita ad un giornalismo spicciolo e ad un’ossessione collettiva e tossica nei confronti di una situazione spiacevole. 

In una società non egoista, i lettori dovrebbero essere schifati da pubblicazioni sulla disposizione della camera da letto della vittima; nessuno avrebbe avuto l’idea di vendere per €150 dei posti per assistere al suo funerale. 

Oltre tutto ciò, era davvero necessario trasmettere a reti quasi unificate il funerale di una ragazza assassinata? 

Anche qui si scade nella spettacolarizzazione del dolore, che si ritrova sminuito per il solo piacere di dire “io c’ero”, come  fosse motivo di vanto. 

Quando le tragedie sono fisicamente e mentalmente lontane, infatti, la morte diviene solo un numero: l’attenzione del pubblico si aggira tra i tre minuti dei servizi dei telegiornali, alla media di un minuto dei tempi di lettura degli articoli online, perdendosi inevitabilmente nell’archivio della nostra memoria.

Purtroppo, anche se in termini ridotti rispetto al caso precedente, nel mondo delle influencer si è assistito ad un aumento di casi simili: personaggi che pur di aumentare il loro engagement non si sono fatti scrupoli nel pubblicare post e storie di figli in letti di ospedale o di mariti in procinto di subire operazioni chirurgiche importanti. 

Per peggiorare ulteriormente una situazione già pessima, la scusa è stata di voler normalizzare situazioni spiacevoli; l’unico risultato è stato la mercificazione del dolore, che smette di essere uno stato d’animo privato e intimo e che diventa di dominio pubblico, senza che ce ne sia effettivamente il bisogno.

Sarebbe ora di finirla di sdrammatizzare tragedie e minimizzare sciagure travestendole da diritto di cronaca: bisogna tornare a vivere il dolore come uno stato d’animo che non deve essere di dominio pubblico, evitando di ridimensionarlo per il solo scopo di renderlo più piacevole e appetibile.