Di Michele

In occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Europa Vs Occidente” per Altaforte Edizioni, abbiamo intervistato il direttore del Primato Nazionale Adriano Scianca.

È da poco uscito per Altaforte il tuo nuovo saggio Europa Vs Occidente che inaugura la nuova collana Avanti. Nel testo indaghi la differenza fra questi due termini, una differenza spesso banalizzata se non ignorata, ma in un mondo che invece si divide – o pretende di dividersi – in occidentali e anti-occidentali qual è il posto dell’Europa?

L’Europa ha filosoficamente e politicamente la funzione di incarnare una opzione non-occidentale senza essere anti-occidentale. La differenza è sostanziale: un conto è pensarsi come il doppio speculare dell’Occidente, il suo contrario puro e semplice (restando quindi prigionieri della sua stessa logica), un conto è sapersi pensare come l’altro e il differente rispetto a entrambe queste categorie. Ovviamente ogni idea è nulla se non si incarna. E se non si incarna, se ne incarnerà un’altra al suo posto. Lo schema della Fallaci (Occidente libero vs Islam oscurantista) è falso, ma può diventare vero se attraverso di esso passa abbastanza forza. Lo schema rovesciato, Stati sovrani e tradizionali vs Occidente unipolare affamatore, è falso ma può diventare vero nello stesso modo. Lo schema Europa potenza pacificatrice e ordinatrice al di là dell’Occidente e dell’anti-Occidente è vero, ma può diventare falso se non lo rendiamo effettivo con la nostra volontà e la nostra forza.

Il libro è anche la presa d’atto di un “cambio di paradigma politico e identitario”. Dopo il Covid e ancora di più con la guerra in Ucraina sembra essersi esaurita la stagione del sovranismo, cosa è vivo e cosa è morto di quella esperienza?

Sono stato uno dei primi in Italia, sul Primato, a scrivere che il sovranismo era morto quando a molti sembrava più vivo che mai. Volendo tracciare un bilancio a mente fredda, il sovranismo è stato innanzitutto un’etichetta molto efficace, non gravata da interdetti storici, che ha costretto i suoi avversari a giustificare se stessi, nel momento in cui dovevano posizionarsi pubblicamente rispetto a un tema cruciale come la sovranità. Ha anche comportato rimescolamenti ideologici concreti tra le varie tribù di appartenenza. Ma, poiché la componente nazional-rivoluzionaria che pure era presente nel sovranismo non ha saputo colonizzarlo, ma anzi si è fatta colonizzare, alla prova dei fatti esso ha creato le condizioni per un proliferare di neo-antifascismi cattolici, liberali e comunisti persino nei lidi che erano estranei a qualsiasi tradizione antifascista. Il bilancio, quindi, non è positivo. Ma questo non vuol dire che sia stato sbagliato tentare di cavalcarlo.

Hai definito la guerra in Ucraina un “potentissimo elemento acceleratore”. Di fatto ci ha posto interrogativi geo-strategici nuovi, ma in molti si sono trovati impreparati di fronte agli eventi. Anzi. Nel cosiddetto mondo “non conforme” abbiamo assistito a profonde spaccature, come ti spieghi tutto ciò?

Le spaccature derivano intanto dalle distorsioni che comportano i social, che oggi sono le principali agorà in cui si svolgono i confronti politici. E in parte anche dalla gigantesca e preoccupante ondata di dissociazione paranoide e solitudine che la stessa pandemia ha comportato, sia tra i fan dell’emergenza pandemica che tra i suoi contestatori. Queste dinamiche non solo esacerbano i toni di qualsiasi discussione, a prescindere dai contenuti, ma fanno soprattutto perdere il senso del tragico a chi per Dna politico dovrebbe averne. Il piglio canzonatorio di certi commenti sull’Ucraina, così come la scelta di alcuni argomenti dialettici (le bollette alte, le polemiche sui fondi agli armamenti etc) per me restano ripugnanti del tutto a prescindere dal giudizio di merito su quel conflitto.

Parte della tua analisi spiega i motivi per i quali l’Occidente è una sorta di “anti-Europa”, l’altra riguarda i miraggi e le alienazioni di chi sogna un “mondo multipolare”. Come mai ci ritroviamo in questo “labirinto degli specchi” e quale dovrebbe essere la bussola per uscirne?

Il multipolarismo è un’ottima bandiera ideologica e, di per sé, un concetto di apparente buon senso. È assolutamente ovvio che qualsiasi militante identitario debba essere contrario a qualsiasi omologazione e uniformazione del mondo, in qualsiasi ambito. Diverso è il caso di chi ne fa non più una mera questione di principi generali, ma una chiave per decifrare la realtà. Che Cina, Russia, India, Iran e chissà chi altri siano alleati in una lotta convergente per il “multipolarismo” è una lettura a dir poco ingenua. Si scambia uno slogan per una categoria analitica. Gli Stati dei Brics, per esempio, hanno un’infinità di motivi di contrasto fra loro e sono tutti a loro volta in rapporti quanto meno ambigui con il mondo cosiddetto “unipolare”, dagli Usa al Regno Unito fino a Israele o all’Ue. Tutti competono e collaborano con tutti. E poi pensiamo all’Africa: com’è che le maggiori potenze “multipolariste” non cessano di interessarsi a un “polo” ben distante dal loro? Troppo comodo essere multipolaristi quando ti devi difendere dalle ingerenze altrui e fare realpolitik quando sei tu a ingerire in giro per il mondo. C’è poi una questione prospettica: esattamente come l’identità “in sé” si difende solo cominciando dall’identità “per sé” (altrimenti si è come i radical chic che raccolgono fondi per l’identità del Chapas ma predicano sradicamento in casa loro), allo stesso modo l’unico “multipolarismo” serio non può che partire dalla creazione del nostro, di polo, cioè l’Europa potenza.

Nella destra e soprattutto nel cosiddetto “fronte del dissenso” troviamo un forte rifiuto nei confronti della tecnologia. Questo rifiuto è giustificato dagli orrori woke e dalla deriva del progressismo? Esiste un approccio autenticamente europeo alla questione della tecnica?

Il luddismo appartiene a certi settori della destra da ben prima della moda woke. Anche in questo caso è stato semmai il Covid, di nuovo, ad aver portato a delle ulteriori derive nefaste. Anzi, potremmo dire che la destra autentica, in quanto espressione della reazione, è intrinsecamente diffidente nei confronti di qualsiasi cambiamento, e quindi anche della tecnica. Il problema, semmai, si pone per quegli ambienti sovrumanisti che a un certo punto del loro ripiego-sulle-origini-progetto-d’avvenire così ben descritto da Nietzsche, da Heidegger e da Locchi (“l’origine è avanti a noi”, diceva Heidegger) hanno avuto una sorta di “amnesia filosofica” e si sono dimenticate che stavano guardando indietro solo per andare più avanti ancora. Così facendo hanno confuso la loro “rivolta contro il mondo moderno”, che era in realtà proiettata oltre il moderno e si nutriva di suggestioni faustiane e prometeiche, con la nostalgia antimoderna. Il problema, insomma, sono i sovrumanisti che hanno battuto la testa e si sono risvegliati credendosi di destra. Quanto all’approccio europeo alla tecnica, per esso parlano non sono cinque millenni di innovazione tecnologica, ma anche il fatto che siamo l’unica civiltà ad aver fatto poesia sulla tecnica.

In un momento in cui la geopolitica è divenuta un fenomeno pop, basti pensare a un personaggio come Dario Fabbri, dedichi spazio a una sua critica o, meglio, a una critica del “geopoliticismo”, come mai?

In realtà quel capitolo è in larga parte tratto da un articolo pubblicato sul Primato nazionale nel 2017, quindi ben prima dell’invasione russa e del Fabbri show, peraltro a suo tempo uscito con un ben poco diplomatico titolo che recitava Per farla finita con la “geopolitica”, che infatti aveva creato già all’epoca un po’ di mal di pancia. Ovviamente io non ho nulla contro Karl Hausofer, Ernesto Massi o… Dario Fabbri. La geopolitica è uno strumento indispensabile. Quello che contesto è che in un certo mondo sia diventata totalizzante e che venga declinata in modo assolutistico, rigido, talvolta moralistico o addirittura escatologico. Ovvero l’esatta negazione della natura amorale, fluida, machiavellica che ha la vera geopolitica.

Seguendo quello che è anche il dettato di Dominique Venner di tornare a essere europei, indichi nella “singolarità europea” e nella “Europa potenza” l’orizzonte entro cui mobilitare energie e lotte politiche. In tutto questo, che ruolo ha l’Italia?

Una delle obiezioni ricorrenti all’ideale europeista è che esso sarebbe in realtà un progetto egemonico tedesco, o francese, o francotedesco, e quindi prevederebbe per l’Italia un destino di subalternità. Forse si vorrebbe una garanzia scritta affinché l’Italia, come un bambino “speciale”, sia rassicurata nei suoi diritti? Qualsiasi accelerazione vede anche competizione interna fra alleati, qualsiasi rimescolamento di carte comporta vincitori e vinti anche all’interno di una medesima compagine ideale e geopolitica. L’unico modo per essere tra i vincitori è partecipare. E farlo bene. L’Italia avrà nell’Europa potenza il ruolo che saprà ritagliarsi, come sempre è stato e sempre sarà.

Per concludere, insieme alla guerra in Ucraina vediamo aprirsi altri fronti. L’ultimo in ordine temporale è quello israelo-palestinese, il quale è tornato a far discutere. Come leggi questo scenario alla luce della frattura Europa/Occidente?

L’apertura di fronti continui, dal Nagorno al Kossovo, passando per Israele, testimonia appunto che più che in una fase di passaggio al multipolarismo, siamo in una fase in cui tutti collaborano e combattono con tutti, tant’è che in ognuno di questi fronti le stesse potenze “multipolariste” giocano contemporaneamente su più tavoli, spesso anche l’una contro l’altra. Per quando riguarda la questione palestinese, l’assenza dell’Europa mi sembra un fattore cruciale: gli Usa e varie potenze regionali eurasiatiche giocano in quello scacchiere partite molto pericolose. L’elemento mediatore e pacificatore europeo sarebbe stato importante, così come il suo interlocutore palestinese naturale, il nazionalismo arabo laico, che ha perso completamente la presa sul territorio per colpe proprie e per un convergente lavorio degli israeliani e dei fondamentalisti. In generale, in linea con quanto ho scritto nel libro, io sono da sempre critico nei confronti di Israele, ma non per via delle foto di stock diffuse da anni dagli uffici stampa palestinesi sui bambini che tirano sassi ai carrarmati o per le fumose ricostruzioni etnologiche sugli abitanti della Palestina preistorica. E se non ho alcuna intenzione di venir meno a questa mia posizione, non posso tuttavia parteggiare per un’azione che ha un modello chiarissimo, ed è il Bataclan. E che non a caso è stata festeggiata e già di nuovo emulata, in Europa, dagli stessi ambienti in cui maturò il Bataclan, i quali del resto della nostra preferenza “antisionista” se ne sbattono bellamente. Questo è un fatto che interroga chiunque osservi la realtà senza cercare di trovarvi risposte già pronte. Per il resto, e in generale, mi rifiuto di accettare il fatto che le uniche posizioni ideologiche possibili siano quelle di Bernard-Henry Lévy del 1972 e quelle di Bernard Henry Lévy del 2023.

Blocco Studentesco