di Enrico

Sì, questa formuletta l’abbiamo già sentita a proposito del conflitto russo-ucraino scoppiato ormai più di un anno e mezzo fa. L’abbiamo sentita in talk show da parte di discutibili opinionisti, sulle colonne dei giornali, sui social network.

Ma se in quel caso la “prevedibilità” del conflitto era dettata, il più delle volte, da opinioni (formate rigorosamente a posteriori) di persone che fino al giorno prima credevano che Mariupol e Kharkiv fossero delle marche di vodka, questa volta la questione è ben diversa; l’attacco di Hamas ad Israele era davvero prevedibile e ora vediamo nel dettaglio perché e quali potrebbero essere gli snodi.

Dicendo che l’attacco di Hamas era prevedibile, non s’intende certo che si poteva già sapere il giorno esatto o l’entità dell’offensiva; nessuno ha la sfera di cristallo.

Tuttavia, è innegabile che la situazione palestinese, rispetto a quella ucraina, aveva un grado di prevedibilità quantomeno maggiore.

È doverosa qui una piccola premessa: questo articolo non vuole essere né una “lezioncina” né un’operazione di tifo da stadio, il suo obiettivo è quello di fare chiarezza e, per quanto possibile, cercare di dare una chiave interpretativa.

Fatta questa premessa, possiamo procedere all’analisi.

I FATTI

Anzitutto, cosa è successo esattamente negli ultimi giorni. Volendo semplificare, ma neanche troppo, si può certamente parlare del più grande attacco ad Israele dai tempi della Guerra del Kippur (1973), con cinquemila razzi di Hamas contro lo stato ebraico, circa duecento ostaggi israeliani e un consistente sconfinamento della Striscia di Gaza da parte dei miliziani. Con però una differenza; mentre la Guerra dei sei giorni e la Guerra del Kippur erano attacchi condotti da eserciti nazionali, con alle spalle una burocrazia, delle catene di comando etc., questa invece è un’offensiva scatenata da un’organizzazione paramilitare. Insomma, è evidente che la questione cambia e anche di parecchio.

CHE COS’È HAMAS?

Come in una dimostrazione di logica, prima di procedere al ragionamento è fondamentale intendersi su quali siano i fattori in gioco.

Che cos’è dunque Hamas? Demonizzata da alcuni come “organizzazione terroristica”, santificata da altri come “campione della resistenza palestinese”, Hamas è essenzialmente un partito-milizia palestinese fondato nel 1987, in prossimità dell’inizio della Prima Intifada. Fino al 2017 era inoltre affiliato ai Fratelli Musulmani.

Di orientamento ultranazionalista, con una forte influenza dell’integralismo sunnita, può contare sull’appoggio diretto dell’Iran (come del resto Hezbollah, di cui però parleremo in seguito) e su quello indiretto di diverse nazioni arabe. A questo però si aggiunge un ulteriore dato: Hamas governa, de facto, la Striscia di Gaza (sottoposta de iure all’ANP), quindi ha anche un peso politico, non solo militare, come testimoniano i suoi 74 seggi al Consiglio legislativo palestinese.

L’altra cosa poi da capire, per comprendere cosa sia realmente Hamas, è che non si tratta in alcun modo di un’organizzazione monolitica. La più clamorosa delle sue “spaccature” (termine improprio, ma che usiamo per comodità) interne è quella tra il braccio politico e il braccio militare dell’organizzazione. Se sul versante politico Hamas può contare sul supporto (a volte anche solo di facciata) di molte nazioni del Medio Oriente anche vicine agli USA (tra cui Qatar, Arabia Saudita e Turchia) su quello militare, le “Brigate Izz ad-Din al-Qassam”, si appoggia a nazioni come la Siria e soprattutto l’Iran. E negli anni tutto questo ha persino portato il braccio militare in rotta di collisione con quello politico.

Fatta questa doverosa, seppur breve, parentesi sul chi, il quando e il che cosa, possiamo passare invece al perché.

LE CAUSE

Perché, dopo tanto tempo dagli accordi di Oslo e dalla fine della seconda Intifada, i movimenti radicali come Hamas sono tornati sul piede di guerra ancor più di prima, con un attacco di dimensioni mai viste in precedenza?

Le ragioni possono essere diverse e alcune al momento non si conoscono neppure. Tuttavia, possiamo iniziare a delinearne alcune, per quanto sia difficile individuare le cause di una guerra quando quest’ultima è ancora in corso.

La prima è di carattere storico: dopo settantacinque anni di occupazione israeliana della Palestina, è quantomeno presumibile che i legittimi abitanti di quella terra ne abbiano “piene le tasche” di subire saccheggi e violenze da parte di un esercito straniero. In tal senso, dunque, Hamas interpreta un sentimento diffuso tra i palestinesi. Va inoltre ricordato che l’odio degli abitanti arabi e musulmani verso i nuovi arrivati ebrei non inizia di punto in bianco con la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, ma ha origini ancora più remote, con le prime migrazioni di ebrei dall’Europa in Palestina durante il periodo del Mandato britannico di Palestina (1920-1947). Questo infatti, piccola parentesi, portò i palestinesi con in testa il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini a simpatizzare per le potenze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale, sia in opposizione all’immigrazione ebraica sia in funzione antibritannica. La situazione poi andò ad inasprirsi ulteriormente dopo la Guerra dei sei giorni, a seguito della quale Israele iniziò ad appropriarsi illegalmente di territori palestinesi oltre i confini stabiliti nel 1948.

Se le premesse del 1947-1948 erano già viziate in partenza, perché ad Israele era stato attribuito il 55% del territorio palestinese, che però conteneva tutte le aree più fertili e redditizie della regione, lasciando ai palestinesi il restante 45%, fatto per lo più di aree desertiche e semidesertiche, dopo la Guerra dei sei giorni e la Guerra del Kippur ogni possibilità di una pace duratura divenne, di fatto, impossibile, con quasi tutta la Palestina in mano a coloni israeliani che, come sancito da diverse dichiarazioni ONU, non hanno alcun diritto legale di stare lì.

La seconda è di carattere geopolitico: da un po’ di tempo stava iniziando una distensione tra alcune nazioni musulmane (come la Turchia e l’Arabia Saudita). Sotto questo profilo, l’attacco di Hamas ha avuto come obiettivo (in parte, almeno fino ad ora, realizzato) quello di mandare in fumo tali accordi.

Possiamo dire quindi che la sensazione di Hamas era quella che il mondo arabo musulmano stesse abbandonando i palestinesi, per questo ora cerca di riaccendere l’ostilità mai sopita delle nazioni arabe verso lo stato ebraico.

A questo si aggiunge un altro importante fattore. L’Iran, dichiaratamente e senza ambiguità ostile agli USA e ad Israele, è legato a doppio filo alle due principali milizie del conflitto arabo israeliano: Hamas, pur essendo quest’ultimo sunnita, mentre l’Iran è la nazione sciita per definizione, e il già citato Hezbollah, milizia sciita libanese. Ora l’Iran ha una concreta possibilità di destabilizzare lo stato ebraico, di indebolirlo. E di certo non si lascerà scappare questa occasione, cercando di sostenere Hamas ed Hezbollah con tutti i mezzi possibili.

La terza è di carattere politico-religioso: questa si ricollega in parte alla prima. Negli ultimi tre anni la situazione già tesa si è inasprita ulteriormente: dall’irruzione delle forze israeliane nella Spianata delle Moschee in periodi di celebrazioni religiose musulmane (come Aid al-Fitr, la festa che segue la fine del mese di Ramadan) allo stato d’assedio perenne a Gaza che è divenuta una prigione a cielo aperto, in cui non arrivano neanche 1/6 degli approvvigionamenti necessari alla popolazione civile palestinese.

Qualche dato su questo per rendere l’idea: a Gaza solo il 5% dell’acqua è potabile, quasi due milioni di palestinesi di Gaza hanno disponibilità dell’elettricità per solo tre o quattro ore al giorno, circa due milioni e mezzo di persone sono in emergenza umanitaria e di queste quasi la metà sono bambini. In ragione di ciò l’Egitto ha proposto di aprire il proprio confine con la Striscia per consentire il passaggio degli aiuti umanitari, se e solo se Israele accetta un cessate il fuoco temporaneo, ma ancora nessuna risposta è arrivata da Tel Aviv.

A questo si somma la totale inesistenza in tutto ciò dell’ANP, tanto a Gaza quanto nella Cisgiordania. Nel primo caso perché l’area è stabilmente governata da Hamas almeno dal 2006 e nel secondo caso perché la Cisgiordania è ridotta all’ombra di sé stessa, a causa della colonizzazione israeliana. Il presidente Mahmud Abbas non ha rilasciato alcuna dichiarazione in merito, non foss’altro perché non può dire nulla senza attirarsi l’ostilità di una delle due parti. In altre parole, se dichiara il proprio sostegno per Hamas rischia di scatenare l’ira di Netanyahu, se condanna l’attacco scatena l’ira di Hamas e degli stessi palestinesi.

I POSSIBILI SCENARI FUTURI

Questa, più di altre, si sta rivelando sempre più la guerra dell’incertezza. Se con la guerra in Ucraina ci sono dei “punti fissi”, perché si tratta di un’area circoscritta in cui è molto improbabile che altre nazioni intervengano concretamente, qui la situazione è un po’ diversa. Ma andiamo per gradi: come abbiamo già detto, si tratta di un attacco mai visto prima, che è riuscito a battere persino il sistema anti-missilistico israeliano “Cupola di ferro” che si credeva imperforabile, oltre al massiccio attacco via terra da parte di più di mille combattenti d’élite di Hamas che sono riusciti a sbaragliare le poche forze di difesa israeliane presenti al confine, riportando con sé nella Striscia di Gaza mezzi militari israeliani (tra cui persino alcuni carri armati “Merkava”), rifornimenti e soprattutto molti ostaggi. E in tutto questo il famigerato Mossad? Molti si sono chiesti come facesse a non sapere nulla. Il motivo è che Benjamin Netanyahu, in parte per fini di “campagna per il consenso” e in parte per reale preoccupazione a riguardo, l’aveva spedito a controllare le mosse dell’Iran. Questo nonostante lo stesso Mossad avesse più volte ribadito al premier israeliano che la minaccia dell’Iran a Israele era molto meno grave di quanto pensasse. Ergo, con il Mossad impegnato in altre faccende, Hamas ha potuto concentrare (stando alle dichiarazioni del suo leader, nell’arco di due anni) un vero e proprio arsenale a Gaza senza dare farsi scoprire dai servizi segreti israeliani.

Ora si aprono molti possibili scenari futuri: cerchiamo di vederne almeno due che potrebbero avvenire nell’immediato.

NB: la situazione mediorientale è talmente articolata, con così tanti attori in campo, che è praticamente impossibile affermare con certezza cosa accadrà nelle prossime settimane, se non nei prossimi mesi; quindi, le varie speculazioni che si possono fare sulla questione vanno prese con le pinze.

La prima possibilità è che l’attacco non preveda solo l’azione di Hamas, ma che sia strutturato su due fasi. La prima, attualmente in corso, con l’attacco della milizia sunnita dalla Striscia di Gaza verso il sud e il centro dello stato ebraico al fine di attirare il grosso delle forze israeliane verso la striscia, per poi passare alla seconda fase, che potrebbe vedere gli alleati di Hamas scatenare l’offensiva nel nord, dove gli israeliani potranno tenere appena un velo di truppe per presidiare il confine; dei 635.000 uomini (170.000 effettivi e 465.000 riservisti) di cui dispone l’esercito israeliano, più della metà sono già schierati al confine con la striscia di Gaza e quello che rimane è chiaramente insufficiente per presidiare i confini con Libano, Giordania e Siria. Ovviamente i più monitorati in tal senso sono ovviamente i miliziani sciiti di Hezbollah, che già il giorno dopo l’attacco di Hamas hanno tempestato il nord di Israele dal Libano con il lancio di oltre cinquanta missili in segno di solidarietà ai miliziani che stanno attaccando da Gaza. Questo nonostante la minaccia imperialistica statunitense rivolta da Biden ad Hezbollah: “Non fatelo”.

Tale tesi sarebbe avvalorata da dichiarazioni e fatti non da poco: anzitutto l’incontro da poco tenutosi a Beirut tra Hassan Nasrallah, leader politico-religioso di Hezbollah, e il ministro degli esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian.

In secondo luogo, le dichiarazioni, sostanzialmente contemporanee, di Iran e Siria. Teheran ha già annunciato una sua risposta se Israele continuerà a bombardare Gaza (come ha annunciato che farà nei prossimi giorni). Il presidente siriano Bashar al-Assad invece, a seguito dei raid israeliani su Damasco e Aleppo, ha dichiarato la necessità di una “rapida azione del mondo arabo” per aiutare i palestinesi.

In sintesi, potrebbe verificarsi un’azione congiunta di Iran, Siria, Iraq ed Hezbollah a sostegno di Hamas. Azione, peraltro, in base alle poche notizie che giungono da Gaza, richiesta a gran voce dai civili palestinesi assediati nella Striscia: “Aiutateci!”

La seconda possibilità è che invece tutte le forze sopracitate si limitino a sostenere Hamas con finanziamenti e armi, senza un intervento diretto. Nel caso di Hezbollah si potrebbe arrivare, in questo caso, al massimo ad azioni di disturbo, come il lancio di missili avvenuto nei giorni scorsi, ma senza effettivamente invadere il nord dello stato ebraico. Tale prospettiva potrebbe essere avvalorata dall’effetto dissuasivo della task-force navale statunitense mandata nel Mediterraneo per scoraggiare le forze ostili ad Israele dall’approfittare della situazione.

COSA POSSIAMO ASPETTARCI

Indipendentemente da quello che sceglierà di fare il mondo musulmano in merito all’appello lanciato da Hamas, le certezze che rimangono sono davvero poche.

La pace non arriverà in tempi brevi e qualunque tipo di negoziato è, per il momento, fuori da ogni radar, sempre per lo stesso motivo; ciò che sta accadendo è completamente diverso tanto dalle guerre arabo-israeliane degli anni ’60-’70 quanto dalla Prima e dalla Seconda Intifada.

L’altra cosa che, allo stato attuale delle cose, pare ormai più una certezza che una possibilità è che questa guerra potrà concludersi solo con l’uscita di scena di uno dei due protagonisti.

Ma queste sono domande a cui solo i prossimi mesi, se non i prossimi anni, potranno dare una risposta.