di Michele
Un libro per farla finita con 1984 di George Orwell, o almeno per superarlo e aggiornare la critica alla società che ci circonda, Grande ospizio occidentale di Eduard Limonov è anche questo. Se in fondo non provate chissà quale simpatia per quel borghesuccio dalle vene varicose di Winston Smith, i cui unici gesti rivoluzionari sono quelli di scopare e farsi fregare dal sistema, se ogni volta che sentite parlare di “deriva orwelliana” mettete mano alla pistola, se più della violenza della repressione avete in odio la tranquillità bovina delle vostre vite, il nuovo saggio dello scrittore russo è il libro che fa per voi.
Nuovo si fa per dire. Uscito in Francia nei primi anni ’90, Grande ospizio occidentale è arrivato quest’anno in Italia per le edizioni Bietti a cura di Andrea Lombardi e con la traduzione di Andrea Scarabelli, il tutto accompagnato da una introduzione firmata da Alain de Benoist.
L’assunto di base da cui parte Limonov è che da un sistema basato sulla violenza dura siamo passati a un sistema che adopera un diverso tipo di controllo che è quello della violenza morbida. Insomma, niente a che vedere con lo “stivale che calpesta un volto per sempre”. Per comprendere la differenza tra questi due tipi di violenza può essere ancora utile il paragone con Orwell. Se una delle poche intuizione valide che Limonov riconosce a 1984 è l’importanza data ai teleschermi, tanto da diventare “il personaggio principale della società futura, il suo principale mezzo di controllo”, ciò avviene secondo schemi sorpassati. Al contrario, “Oggi, ormai la tv controlla la popolazione. Ma lo fa attraverso ciò che mostra, non osservandola”. In altre parole, non una sorveglianza continua che comprende addirittura il divieto di spegnere i teleschermi, ma una manipolazione ancora più sottile e pervasiva. Questo passaggio di paradigma nasce dall’apice di distruzione e di estremo pericolo raggiunti nel primo Novecento:
terrorizzata dal proprio cannibalismo durante la Grande Guerra e poi ancora nella Seconda guerra mondiale, l’umanità “civilizzata” ha preso le distanze dai regimi duri, optando risolutamente per quelli morbidi (altri due fattori essenziali hanno determinato questa scelta gli armamenti nucleari, che dissuadono dall’aggressività; l’innovazione tecnologica, che permette di saziare gli appetiti delle masse).
Una differenziazione che Limonov spiega in questo modo:
se la violenza dura comporta essenzialmente la repressione fisica dell’individuo, quella morbida si basa sullo sfruttamento delle sue debolezze. La prima intende trasformare il mondo in una cella di isolamento, l’altra vuole fare dell’uomo un animale domestico. In breve, un regime morbido non sa che farsene di uniformi nere, manganelli e tortura. Ha un arsenale diverso: la falsa idea del benessere materiale, la minaccia della disoccupazione e della crisi, il timore e la vergogna di essere più povere – e, quindi, meno buoni – dei propri vicini, la pigrizia. L’uomo non è solo energia ma anche pigrizia.
Da qui l’immagine dell’Ospizio, che riassume in sé l’idea di un mondo senescente e privo di forze, “i cui pazienti sono curati in un clima morbido, ma comunque disciplinare”. Una metafora che “intende creare il famoso effetto di ‘distanziamento’, affinché il lettore possa vedere il mondo che gli è familiare attraverso uno sguardo estraneo”, ovvero quello dello stesso Limonov. Non bisogna farsi troppe illusioni sull’entità dell’Ospizio e sulla sua valenza “occidentale”. I Sanatori dell’Est sono solamente una forma più primitiva e più rozza di quelli dell’Ovest, hanno ancora bisogno di affinare i propri metodi. Le catene che stringono coloro che abitano l’Ospizio sono gli imbonimenti degli agi e delle comodità, la diluizione della vita nella noia, l’esclusione di qualsiasi emozioni eccessiva. Un prospettiva disperante e senza via d’uscita, perché dalla propria vecchiaia non si guarisce che con la morte.
In questa sorta di confine ultimo che è l’Ospizio alcuni uomini prosperano, altri vengono esclusi. Tutto assume l’aspetto di una selezione al ribasso, di un allevamento d’uomini che però sceglie i caratteri più deboli e meno problematici. Raggiungiamo l’apice – o l’abisso? – di quell’“imbestiamento in gregge” che Nietzsche rimproverava al liberalismo. A essere negati e disconosciuti sono gli “Agitati”, quelli che una volta avremmo chiamato eroi. Al contrario ad essere esaltati sono i deboli e i “Malati”, in un rovesciamento di significato che fa del revisionismo e dello stigma morale la propria arma:
il culto delle Vittime è ancora più assurdo se messo a confronto con la Storia. Sarà per confusione mentale che da duemilatrecento anni l’umanità ammira Alessandro Magno, primo conquistatore europeo. Secondo i criteri attuali, dovremmo provare pietà per le tribù da lui sottomesse. Fortunatamente per Alessandro, Amnesty International non esisteva ancora.
In fondo ci troviamo di fronte a “un’utopia fatta e finita”, all’avverarsi dei sogni bagnati del benessere materiale e di quella rettificazione del mondo da parte dello spirito socratico in opposizione a quello tragico. Tutto questo esclude però, per amaro paradosso di tutti gli umanitaristi, la parte più interessante dell’umanità. Ma per quanto si voglia rifiutare il rischio e la conflittualità, per quanto si tenti di anestetizzare la vita e di deformare l’uomo, non si può nascondere in eterno sotto un tappeto la sua vera essenza: “una ‘buona vita’ può diventare insopportabile persino all’animale più docile. Un lavoro monotono, una pacifica digestione, un accoppiamento tranquillo sono tutte cose eccellenti, ma possono soddisfare solo una parte dell’animale umano. Anche la sua aggressività vuole esprimersi”.
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