Era il 16 maggio quando il fiume Savio rompeva gli argini a Cesena, dando inizio (almeno ufficialmente) alla cosiddetta “seconda fase” dell’alluvione che ha colpito la Romagna il mese scorso, di cui la prima fase ha visto la serie di esondazioni nel ravennate fra il 3 e il 4 maggio. Una successione di piene che hanno colpito a ruota i territori romagnoli, partendo dalle province ravennati di Faenza e Bagnacavallo per poi raggiungere Forlì e Cesena e concludersi di nuovo in provincia di Ravenna, per un totale di 22 fiumi esondati e 37 comuni allagati, come riporta il bollettino dell’Arpa (Agenzia Regionale Prevenzione Ambiente). E i danni non si calcolano solo nei centri urbani inondati, ma anche nelle colline romagnole circostanti, dove le forti piogge hanno causato numerose frane e dissesti del terreno per un numero complessivo di 280 in 58 comuni della regione.
A un mese dall’accaduto, è possibile quantificare in maniera più efficace l’entità dei danni di un alluvione disastroso che ha interessato metà di un’intera regione, e che vanno ben al di là del solo, concreto danno economico calcolabile in euro. Già le prime verifiche degli organi competenti hanno confermato che le gravi conseguenze delle esondazioni sono da attribuire non tanto a un periodo di maltempo con piogge particolarmente abbondanti, ma alla (mala, anzi totalmente assente) gestione da parte della Regione, nonostante il consistente rischio di dissesto idrogeologico e le disponibilità economiche e di mezzi per la messa in sicurezza del territorio. E la Romagna non è estranea a eventi di questo tipo: già nel maggio del 2019 Cesena era stata colpita da un’altra esondazione del Savio, dove la situazione si era rivelata già critica ma non quanto l’alluvione di quest’anno.
C’erano quindi tutti gli elementi perché si intuisse che il rischio di esondazioni nel territorio romagnolo fosse una possibilità concreta o comunque prevedibile, testimoni anche le allerte dai centri metereologici regionali che già a fine aprile avevano previsto un’estate piovosa. E nemmeno si era in mancanza dei mezzi, considerando soprattutto i 55 milioni di euro stanziati dal governo nella primavera dello scorso anno, la cui ripartizione è stata presa in carico dalla Giunta regionale, con una serie di investimenti da distribuire fra il 2022 e il 2024.
Dove?, viene spontaneo chiedersi, mentre il fango rimasto nelle strade diventa polvere e si aggiornano le liste degli aiuti da richiedere al nazionale. In ordine di importanza per somma di investimento, le direttive di Bonaccini hanno disposto: interventi di una non specificata rigenerazione urbana (20 milioni), la proverbiale e immancabile costruzione di piste ciclabili (10 milioni), 5 milioni ai beni culturali e altri 5 alle Unioni di Comuni, quasi 3 milioni per una maggiore connessione wi-fi sulla costa adriatica e un altro paio di milioni per l’installazione di impianti di telefonia in montagna.
Ma non solo. Cotanto contante è da aggiungersi ai fondi statali precedenti del 2021 e del 2020, pari a 80 milioni: in totale si parla quindi di 135 milioni di euro di fondi ricevuti negli ultimi 3 anni. “Solo” più del doppio di quello che si raccoglierebbe se ogni italiano donasse 1 euro. Sì, per cosa? Non serve una buona memoria per ricordare l’isteria durante e post pandemia (previsioni sì apocalittiche, ma fino a un certo punto, essendosi esaurite in 3 anni appena), e viene logico dedurre che tali spiccioli al tempo siano stati destinati a interventi contro il covid. Ma se ripensiamo a quella disposizione (sempre della Giunta regionale) che stabiliva l’erogazione gratuita dei farmaci della terapia ormonale per il cambio di sesso, dopo una breve ricerca ci accorgeremo che tale norma è stata divulgata a fine 2020, e possiamo farci un’idea più precisa della reale destinazione di tali fondi.
Nessuno si aspettava nulla di diverso, in fondo, e forse anche questo è alla base delle migliaia di volontari che sono accorsi per prestare aiuto nelle strade, nelle case e nelle cantine; spesso e volentieri precedendo la Protezione Civile e, in modo più o meno coordinato, liberando dal fango stanze intere prima ancora che la suddetta si presentasse in strada con le pompe. La “chiamata” dei social ha avuto indubbiamente un impatto notevole sulla diffusione della notizia e la successiva organizzazione delle squadre; come sempre, non sono mancati selfie da passerella e stivali infangati in bella mostra; e nemmeno sono mancate le passerelle stesse …
Nulla di nuovo, insomma. Peccato però che questo giro la scelta degli “eletti” per l’inclusività di tutti i generi e un’alternativa più green per l’ambiente sia “costata” alla Romagna danni calcolabili in miliardi, dove il calcolabile, anche più di mese dopo la prima esondazione, rimane ancora molto relativo. Perché la reale perdita causata dall’alluvione va oltre il solo danno economico, andando a colpire anche il sistema economico del cuore di una delle regioni più ricche d’Italia.
I danni più consistenti riguardano il settore ortofrutticolo romagnolo, uno dei più importanti in assoluto in Europa.
A questo potrebbe aggiungersi anche il settore del turismo, che ha registrato un tardo inizio della stagione estiva con cancellazioni fino a fine luglio, troncando di netto una lenta ripresa dal Covid che solo due/tre anni fa aveva messo in ginocchio le strutture della Riviera. Per quanto i social siano stati efficaci a organizzare gli aiuti e ad aggiornare in tempo reale la situazione, per settimane hanno condiviso filmati di strade allagate dal fango che hanno avuto un impatto inevitabile sui turisti che avevano prenotato la stagione o che erano in procinto di farlo. La morale romagnola divenuta famosa sui social per la tenacia e per il non prendersi troppo sul serio non sembra essere stata sufficiente per cambiare la percezione a livello nazionale del disastro.
Anche se l’esondazione ha interessato territori nell’entroterra lontani dal mare, le disdette sono presto arrivate agli hotel della Riviera, niente affatto colpiti dall’emergenza. La Riviera è operativa ma in un mese le cancellazioni sono diventate migliaia. Un danno economico già ingente che rischia di raddoppiare entro la fine dell’estate, unendo la distruzione del territorio alla riduzione netta delle entrate del settore turistico di importanza cruciale per la Romagna, fra strutture alberghiere e stabilimenti balneari che sono praticamente sempre stati funzionanti e che sono pronti ad accogliere i turisti, sempre che arrivino, sempre che la stagione estiva riesca a partire.
In realtà questa rimane una questione da risolvere nei prossimi mesi, ed essendo metà giugno non rimane che aspettare e vedere come si evolve la situazione.
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