di Sergio.
Il 13 giugno, nel New Mexico è morto per cause naturali lo scrittore americano Cormac McCarthy: aveva 89 anni. Se n’è andato in silenzio, nella sua casa di Santa Fe, e la notizia ci arriva come un gancio sul mento: pochi scrittori hanno inciso così tanto nell’immaginario di intere generazioni, tanto da risultare beatificato già in vita. Solo poche settimane fa era sbarcato in Italia la sua penultima fatica letteraria, Il Passeggero, quasi a volerci ricordare che in fondo è quello il nostro ruolo sulla Terra: passare, andare avanti, eclissarci.
McCarthy, l’ultimo pagano
Ingiustamente marchiato come nichilista, l’opera di McCarthy è sempre stata impregnata di una potenza aurorale, primitiva, archetipica. La morte e la vita, l’amore e la violenza, l’orrore e l’ingiustizia: riusciva a trattare la carne umana con un tocco freddo e impassibile, sempre correndo sul filo di quella frontiera desertica tra ciò che è giusto e sbagliato, saltando di qua e di là come un cavallo della prateria. Mai un filo di buonismo, mai un cedimento su banalità o tantomeno velleità politicamente corrette. Il suo racconto lucido e la sua prosa lapidaria e monolitica come una sentenza di morte sono stati un’eccezione in un mondo letterario che si è perso nella copia di sé stesso. “Non esiste vita senza spargimento di sangue”, ha detto una volta. “L’idea che la specie possa essere migliorata, in qualche modo, che tutti possano vivere in armonia, mi pare pericolosa. Chi è afflitto da questa nozione è il primo a rinunciare alla propria anima, alla propria libertà. Il desiderio di percorrere questa via ti rende schiavo, rende vacua la tua esistenza”. Un nativo rapporto con la libertà quindi, quella che vive al di là dei dogmi di giusto e sbagliato: questo era il suo rapporto con la letteratura dal quale faceva sprizzare fuori il bagliore incendiario del Sole. Non gli interessavo le scuse ma piuttosto “l’animale allo stato brado, che può ucciderti all’improvviso”, mentre considerava “le scuole di scrittura sono un caos inutile”. In un lungo articolo pubblicato sul “New Yorker”, Robert Coles lo definì come un “romanziere col senso del sacro”, perché si rifiutava di piegare la sua scrittura alle esigenze intellettuali della nostra epoca, perché preferiva la compagnia dei lupi di El Paso a quelli della Rockefeller foundation, perché i suoi racconti erano sempre imperniati sul senso di una ricerca interiore (Il Passeggero), su una violenza generatrice di senso (Meridiano di Sangue), sul ritorno alle forme arcaiche di esistenza quando tutto intorno brucia (La Strada). La sua non era arrendevolezza, ma sfida implacabile al nulla. “Tieni acceso un piccolo fuoco; per quanto piccolo, per quanto nascosto”. Un ultimo Omero per l’America di Dio e delle armi.
Viaggio di ritorno
Infatti, se c’è un leitmotiv permeante della letteratura di McCarthy, comune a tutte le sue opere, è proprio l’imperativo di far ritorno a casa: nel senso di eliminare le scorie, le maschere, per far riaffiorare quel “sacro” che non è reliquia ma sostanza. I suoi racconti sembrano sempre concludersi con la presa di coscienza dell’incoscienza del mondo, dell’insensatezza di chi vuole ordinarlo dentro schemi e numeri, col riaffiorare alla superficie di quelle forme, immagini e gesti che nella loro semplicità sembrano farsi liturgici. “Certe cose un numero non ce l’hanno”. I suoi personaggi devono sopravvivere e per questo devono liberarsi degli orpelli che la società, la cultura e la religione gli mettono addosso, e scoprire di nuovo ciò che di arcaico si risveglia negli uomini quando sono messi con le spalle al muro. Ecco cosa faceva McCarthy con i suoi libri: metteva i suoi personaggi spalle al muro e davanti ad una furia cieca, senza nome. Metteva noi spalle al muro e sembrava dirci vedi, è così che va il mondo, puoi solo decidere come combatterlo ma non ti illudere perché alla fine tocca a tutti. Però combatti, combatti, combatti, finchè ne hai la forza. Fino all’ultima pagina. Ed è strano – ma forse nemmeno troppo – che nel suo ultimo libro le pagine conclusive sembrano cantare un’ode al mare. Non ad un mare qualsiasi, ma al nostro: il Mediterraneo. Gli amici di McCarthy dicevano che volesse trasferirsi in Spagna, almeno negli ultimi tempi. Chissà, forse ha affidato alle ultime pagine del libro questo suo desiderio. Bobby Western, il Passeggero, arriva come un naufrago esiliato sulle sponde delle isole spagnole: lui è un fisico, ma ora assomiglia di più alla maschera di una tragedia greca che ad un uomo occidentale. Si ritrova quasi nudo sulle spiagge, “vestigia di mondi scomparsi”, esule e senza radici. Lavora in una capanna, alla flebile luce di una fiamma “come quegli studiosi dei tempi andati che sgobbavano sui loro rotoli nelle loro fredde stanze di pietra”. Di fronte il mare e il buio, le “età dell’uomo che corrono da tomba a tomba”. La consapevolezza di essere “l’ultimo pagano sulla terra”. Ecco, forse in queste ultime pagine si condensa quel senso di ritorno che per McCarthy voleva dire far rivivere il mito, quel senso che si ritrova in fondo ad ogni sua storia: “Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra”. Come un rituale antico. Così sia. Accendi un fuoco, o muori.
L’ultimo a novembre
A novembre leggeremo le sue ultimissime parole: uscirà infatti Stella Maris, la seconda parte de Il Passeggero. Questa volta sarà veramente la fine, quindi non possiamo far altro che auspicarci che in questo momento lo scrittore di Providence sia in compagnia della sua legione di perduti e le sue coorti di dannati, nell’attesa di poter leggere quelle che resteranno le sue ultime pagine. Ogni grande storia ha una conclusione. E nemmeno questa non fa eccezione.
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