Di Domus,
Pierre Eugène Drieu La Rochelle (1893-1945) è uno scrittore e poeta francese della prima metà del XX secolo. Le Feu Follet, scritto nel 1931, è uno dei suoi ultimi romanzi del periodo surrealista e forse quello che più ha segnato l’autore.
“Le Feu Follet” è il termine francese per indicare il fuoco fatuo, fenomeno che spesso si verifica nelle paludi e causato dalla vegetazione in decomposizione che emette gas metano. Drieu La Rochelle ha dato questo titolo al romanzo perché voleva evocare l’idea di marciume morale e intellettuale, che riemerge dalle società moderne come le esalazioni di una palude.
Le Feu Follet è un romanzo sulla decadenza, sulla tossicodipendenza, sull’anomia culturale e infine sul suicidio. In particolare, parla degli ultimi giorni a Parigi di un tossicodipendente poco prima di suicidarsi. Il romanzo è strutturato come una serie di incontri del protagonista con altre persone, nessuna delle quali gli fornisce una ragione convincente per vivere.
Alain Leroy ha 30 anni. È stato un soldato adolescente nella Prima guerra mondiale, ma da una decina d’anni vive sulle spalle di ricche donne americane facendo il gigolò e alimentando il suo vizio per la droga: al momento in cui è ambientato il romanzo, è al terzo tentativo di disintossicarsi.
Era stato sposato con un’americana di nome Dorothy, con la quale ha trascorso l’ultima estate in Costa Azzurra, e spera che questa gli mandi del denaro per potersi mantenere. Il romanzo si apre però con lui che divide il letto di uno squallido hotel con un’altra americana, Lydia, già sposata e divorziata due volte. Lei lo vede solo come il suo “giochino francese”, una vera e propria via di fuga dalla vita abituale in America, ammettendo a pagina 17:
“J’aime bien ces sales hotels… ce sont les seuls endroits que je trouve intime dans le monde, parce que je n’y suis jamais qu’avec vous.
“Adoro questi alberghi sporchi… sono gli unici posti sulla terra che trovo veramente intimi, perché non ci vado mai se non con te”.
Lydia dà quindi ad Alain una generosa somma di denaro a condizione che lui la raggiunga a New York e la sposi. Alain è costretto ad accettare, ben sapendo però che alla fine spenderà i soldi in droga e che non manterrà l’accordo.
Alain si reca poi alla clinica di cura per tossicodipendenti fuori Parigi e si trova circondato da altri pazienti come lui nei quali – inconsciamente – si rispecchia. Ciò lo disgusta profondamente.
In una lunga conversazione, il dottor Barbinais – direttore della clinica – cerca di farlo ragionare sulla sua dipendenza, spiegandogli le varie ripercussioni medico-sanitarie nelle quali rischia di incorrere a causa della sua forte dipendenza. Nel mentre di questa discussione, che assomiglia più ad un monologo del dottore, Alain pensa al fatto che Barbinais non lo voglia veramente curare e far guarire, avendo quest’ultimo degli interessi economici a trattenerlo come paziente. Profondamente schifato dal fatto che un medico possa anteporre il guadagno alla cura dei pazienti, ad un certo punto interrompe il silenzio e dice francamente al dottore che lui ha intenzione di continuare a drogarsi.
Torna quindi a Parigi. Il resto del romanzo è costituito da una serie di visite a vari amici nel corso di una lunga serata di novembre.
Il primo è Dubourg, un negoziante sposato con due figli. Costui cerca di convincere Alain che la sua vita vale la pena di essere vissuta e che ha del talento. Alain è però completamente estraneo alla comoda vita borghese di Dubourg e sente che non gli appartiene. Quindi, le argomentazioni dell’amico – come per quelle del dottore – non fanno alcuna presa su di lui.
Dopo aver lasciato Dubourg, Alain ha un attacco d’astinenza e assume dell’eroina, per poi andarsi ad ubriacare nel salotto esclusivo di una donna di nome Praline. Ad un certo punto, alcuni ragazzi presenti nel locale si avvicinano ed iniziano a parlare con Alain. Questo, dopo aver raccontato la sua esperienza con gli stupefacenti, viene deriso dagli altri completamente inebriati dalle droghe, che commentano in modo sardonico i penosi tentativi di Alain di disintossicarsi. Uno del gruppo, per il quale Alain prova particolare disgusto, è Urcel, un dandy fumatore d’oppio che parla del suo vizio come di un’esperienza mistica illuminante. (Mi chiedo se Drieu La Rochelle non stia qui schernendo il dandy borghese Jean Cocteau, il cui libro “Opium, Diary of a Cure” fu pubblicato nel 1930, l’anno prima di “Le Feu Follet” n.d.r.).
L’ultima uscita sociale di Alain è una cena in compagnia di alcuni edonisti parigini molto ricchi, Cyrille e Solange Lavaux, i quali hanno organizzato una festa per quella sera, ma per l’ennesima volta Alain si sente in forte disagio. Non riuscendosi a trattenere, inizia a criticare i Lavaux, che ne rimangono particolarmente offesi. Queste persone alla moda lo disgustano come le altre che ha incontrato finora. Li vede come dei poseur artificiali, finti, bugiardi, ipocriti. In una lunga conversazione ammette perfino che, per quanto debba riconoscere la bellezza fisica della padrona di casa Solange Lavaux, non prova più vero piacere per le donne, le quali gli sembravano tutte così false.
Andandosene, ricomincia a vagabondare per le strade notturne di Parigi, girando per i bar malfamati intorno a Montmartre e riversando la sua autocommiserazione su Milou, un altro tossicodipendente con cui infine stringe amicizia.
Questa autocommiserazione è tutto ciò che rimane dopo il percorso del protagonista. Progressivamente abbiamo visto la mente di Alain rifiutare le argomentazioni della medicina (il dottor Barbinais), il fascino delle comodità borghesi (Dubourg), le autogiustificazioni degli esteti della droga (Urcel e Praline) e l’edonismo dei ricchi (i coniugi Lavaux e i loro ospiti).
Nel corso del romanzo Alain promette alle persone che incontra di vederli il giorno seguente. Invece, torna nella sua stanza d’albergo, si mette a dormire, si sveglia al mattino e, guardandosi allo specchio, si spara un colpo in testa.
Sul piano più letterale e superficiale, Le Feu Follet è infatti un romanzo sulla tossicodipendenza. Nella parte in cui Alain viene intervistato dal dottor Barbinais, c’è un lungo e vivido resoconto della sua storia di tossicodipendenza, iniziata con qualche sniffata inebriante di cocaina quando era un adolescente, passata poi al consumo abituale di alcolici pesanti ed infine approdata all’eroina. Vengono anche raccontati due precedenti tentativi di disintossicazione, con i loro terribili sintomi di astinenza.
Alain ha così poco controllo sugli aspetti più grandi della sua vita che si riduce in modo maniacale a fare ordine negli aspetti più piccoli e banali. Una delle prove più tristi di questa patetica compulsione del riordino, è la descrizione di come ha sistemato la stanza d’albergo:
“Les choses sur la table et la cheminee etaient parfaitement ranges. Dans le cercle de plus en plus restraint ou il vivait, tout comptait. Sur la table il y avait des lettres, des factures classes en deux paquets. Puis, une pile de boites de cigarettes, une pile de boites d’allumettes. Un stylo. Un grand portefeuille a serrures. Sur la table de nuit, des romans policiers ou pornographiques, des illustres americains et des revues d’avant-garde. Sur la cheminee, deux objects: l’un, une mecanique tres subtile, un chronometre de platine partfaitement plat, l’autre, une affreuse petite statuette de platre coloree, d’une vulgarite atroce, achetee dans une foire, qu’il transpotrtait partout, et qui representait une femme nue. Il la disait jolie, mais il etait content qu’elle enlaidit sa vie”. (p.35)
“Le cose sul tavolo e sulla mensola del camino erano disposte in modo perfettamente ordinato. Contava tutto nel cerchio, sempre più stretto, in cui viveva. Sul tavolo c’erano lettere, con banconote organizzate in due mazzi. Poi una pila di pacchetti di sigarette e una pila di scatole di fiammiferi. Una penna. Una grande valigetta chiusa a chiave. Sul comodino, romanzi polizieschi e pornografici, riviste illustrate americane e riviste d’avanguardia. Sulla mensola del camino, due oggetti: uno, un meccanismo molto sottile, un cronometro a placche perfettamente piatto; l’altro, un’orribile statuetta di gesso colorato, di disgustosa volgarità, che aveva comprato in un mercatino delle pulci e che portava con sé ovunque andasse. Era una donna nuda. Diceva che era bella, ma era felice che rendesse la sua vita più brutta”.
È curioso notare la dualità dei soprammobili posti sul camino: da un lato – che diremmo “apollineo” – un oggetto meccanico che rappresenta l’abilità e il potenziale dell’ingegno umano; dall’altro – che chiameremmo “dionisiaco” – la degenerazione e la perversione che affligge quello stesso umano.
Alain, che racchiude e vive entrambe queste pulsioni verso l’alto e verso il basso, rappresenta senza saperlo l’essenza dell’uomo. Non riuscendo a gestire questa dualità inconscia, Alain è costretto a ridurre sempre di più il proprio campo esistenziale che, rifugiandosi nella droga, finisce per ridursi alla droga stessa:
“Il n’avait que la drogue, il n’y avait pas a essayer d’en sortir, le monde etait le drogue meme… Il remplit la seringue d’heroine, retroussa sa manche et se piqua”. (p.131)
“Aveva solo la droga. Non doveva cercare di liberarsene. Il mondo era la droga stessa… Riempì la siringa di eroina, si rimboccò la manica e si iniettò”.
È evidente il tributo fisico che l’abuso di droga ha avuto su Alain. All’età di trent’anni, di tanto in tanto, si chiede come non sia più il bel giovane che era solo pochi anni prima. Il suo aspetto sta scomparendo. Spesso sente stanchezza, spossatezza, perdita di volontà. Ha difficoltà a svegliarsi per fare l’amore con Lydia nella parte iniziale del romanzo. Parlando con Dubourg ammette “je fais mal l’amour”.
Visitando un bar, osserva i volti dei bohémien che conosceva e vede che, come lui, sono improvvisamente tutti vecchi e stanchi. Ammette la sua dipendenza dalle donne, non solo in termini di denaro, ma anche in termini emotivi, come un bambino non ancora sessualmente attivo. A casa Lavaux, parlando con una terza persona della bellezza sociale Solange Lavaux, ammette:
“Je ne peux pas vouloir, je ne peux pas meme desirer. Par exemple, toutes les femmes qui sont ici, je ne peux pas les desirer, ells me font peur, peur. J’ai aussi peur devant les femmes qu’au front pendant la guerre. Par exemple, Solange, si je restais seul cinq minutes avec elle, eh bien, je me ferait rat, je disparaitrais dans le mur”. (p.186)
“Non sono in grado di desiderare nulla, non sono nemmeno in grado di desiderare qualcosa. Guardate, per esempio, tutte le donne che sono qui. Non sono in grado di desiderarle. Ho paura di loro. Ho paura. Ho paura di fronte alle donne come quando ero al fronte in guerra. Prendiamo Solange. Se stessi con lei solo per cinque minuti mi raggrinzirei come un piccolo topo e scomparirei nel bosco”.
Ma parlare dell’assunzione di droga e della tossicodipendenza è lo scopo principale di Drieu La Rochelle? Le Feu Follet vuole rappresentare, in realtà, una società malata e decadente tanto quanto un Alain malato e decadente. Questa società e questo individuo non vanno da nessuna parte, se non verso la morte. Il romanzo non presenta mai, come soluzioni salvifiche, delle alternative religiose, filosofiche o politiche all’autodistruttività di Alain. Ed è, in effetti, la più perfetta espressione del nichilismo o della fede nel nulla. Come biasimarlo: in quale direzione si può mai andare quando si vede che la società e la cultura sono decadenti e le figure più rappresentative di esse abbracciano il nulla?
Ma Drieu La Rochelle è veramente convinto di questo? Leggendo altri suoi scritti, forse naturali evoluzioni di Le Feu Follet dovute ad una parallela evoluzione filosofico-politica dell’autore, il quale è pienamente immerso nel contesto storico delle rivoluzioni fasciste in Europa, si comprende esattamente la Via di fuga dal nichilismo che Drieu La Rochelle identifica. In Socialisme Fasciste (1934) e soprattutto in Gilles (1939), l’autore francese riscopre – per il tramite dei suoi stessi personaggi – l’unica vera Via di fuga dal nichilismo: la Fede in una dottrina e il sacrificio per essa.
Torniamo però a Le Feu Follet. Come il suo Alain Leroy immaginario, Drieu La Rochelle ha combattuto nella Prima guerra mondiale ed è stato tre volte gravemente ferito. La guerra ebbe un forte effetto su di lui, portandolo a diffidare delle velleitarie illusioni dei vertici militari francesi e degli ufficiali, pur comprendendo ed esaltando l’eroismo nel mestiere del soldato (La comédie de Charleroi, 1934).
Negli anni Venti, mentre scriveva poesie, novelle e commenti politici, Drieu La Rochelle fece le cose che ci si aspettava da un intellettuale francese della sua generazione. Si mescolò con dadaisti, surrealisti e comunisti. Insieme ad André Breton, fu infatti uno dei primi a firmare il Manifesto surrealista. Inoltre, il poeta comunista Louis Aragon era un suo amico, così come il romanziere di sinistra André Malraux.
Drieu La Rochelle, come molti intellettuali dell’epoca, vedeva la democrazia parlamentare come debole, corrotta, divisa e incapace di fornire una buona leadership. I governi “a porte girevoli” della Repubblica francese tra le due guerre avrebbero poi rafforzato in lui questa visione. Dal punto di vista politico, Drieu La Rochelle avrebbe potuto fare il salto da una parte o dall’altra, dato che sia fascisti che comunisti in quel periodo muovevano le stesse critiche alla democrazia liberal-borghese.
All’inizio degli anni Trenta scriveva ancora articoli che criticavano Hitler, ma dopo i grandi disordini parigini del 1934 – quando le leghe dei veterani unitamente a gruppi fascisti manifestarono chiedendo un cambio di governo – Drieu La Rochelle abbracciò le istanze delle rivoluzioni nazionaliste. Nel 1936 aderì al PPI, il partito fascista francese militante di Jacques Doriot. Da notare che Jacques Doriot era stato in precedenza un astro nascente del Partito Comunista Francese, sindaco comunista del sobborgo operaio parigino St Denis e deputato comunista al parlamento.
Durante la Francia di Vichy, Drieu La Rochelle fu un entusiasta collaboratore intellettuale, dirigendo la prestigiosa La Nouvelle Revue française, e scrivendo articoli di lode al Nazionalsocialismo tedesco e al Fascismo italiano.
Arrivò poi la “liberazione” del 1944. Drieu La Rochelle era un uomo già condannato, ma più che di fronte ad un plotone d’esecuzione, di fronte al proprio Sé: costretto a vivere tutti i giorni di fronte a quello stesso specchio nel quale Alain Leroy, il suo personaggio decadente e amorale, vedeva il proprio non-essere.
Drieu La Rochelle, vedendo la fine del mondo che gli aveva dato nuova speranza nella decadenza dei valori tradizionali, decise di finire la sua storia come quella di uno dei suoi primi personaggi, sconfitto, triste e carico solo di autocommiserazione: Alain Leroy.
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