di Bianca
È di qualche settimana fa la notizia dell’ennesimo scontro fra repubblicani e democratici negli Stati Uniti; il che, in previsione della ricandidatura di Trump per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo, non è di certo nuovo alla politica statunitense il cui dibattito politico si fonda essenzialmente sul botta e risposta dei due partiti. La questione su cui verte, però, ha creato scalpore con un’enorme rilevanza non solo politica, ma anche sportiva.
La Camera USA ha infatti approvato, su proposta repubblicana, una legge che vieta ai nati maschi di gareggiare con le donne, la cosiddetta Legge sulla protezione delle donne e delle ragazze nello sport. L’attenzione sul tema si rivolge soprattutto all’ambito dei concorsi sportivi studenteschi, dove l’indubbia (o almeno, così dovrebbe essere) superiorità atletica maschile azzera la possibilità delle studentesse di distinguersi nelle gare per ottenere le borse di studio, così importanti negli Stati Uniti per far fronte ai costi spropositati delle università. Prontamente Biden ha annunciato che, se la norma dovesse passare anche al Senato, sarà posto un veto per troncarla sul nascere, ovviamente per opporsi alla “discriminazione delle ragazze transgender”.
Tale legge della Camera è un provvedimento in seguito a un veto di fine marzo della Federazione Mondiale di Atletica, niente meno, in occasione del consiglio mondiale del World Athletics: da quel momento alle donne trans non sarebbe più stato permesso competere a fianco delle donne “biologiche” nelle gare sportive. In particolare, il veto è rivolto a “chi è nato maschio”, andando a comprendere sia gli uomini che hanno intrapreso un percorso di transizione, sia quelli che dichiarano “semplicemente” di essere donne, senza l’affidamento a ritocchi biologici.
La Federazione si giustifica sostenendo (o ribadendo, forse) l’innegabile e netta superiorità delle prestazioni maschili nello sport rispetto a quelle femminili, in competizione nella stessa gara. “La biologia ha la meglio sul genere” constata la Federazione, senza abbellimenti o goffi, fallimentari tentativi di non trovarsi orde di liberali, fluidi e compagnia cantante alle costole con la bava alla bocca. Il risultato d’altronde non sarebbe cambiato. Perché è un veto che nella logica comune di dieci anni fa, o anche solo in qualsiasi ragionamento logico, non ci sarebbe mai dovuto essere: più che un veto, era l’ovvio, un’affermazione scontata, certo, perché, quando mai si è potuto fare?
Ma si è potuto fare, eccome, come sappiamo. Le competizioni sportive negli ultimi tempi non sono state che l’ennesimo pretesto per aprire le danze alla retorica trita e ritrita dei diritti dell’inclusività a discapito della semplice logica, dando il via a numerose competizioni donna trans contro donna con risultati a dir poco scontati. Uno degli ultimi, clamorosi casi è stato quello dell’americano? Americana? Lia (prima Will) Thomas, dichiaratosi donna senza transizione, che ha stracciato tutte le avversarie nel nuoto stile libero sui 200, 500 e 1650 yard, battendo ogni record della categoria e passando dal 462° posto nella classifica maschile mondiale al primo di quella femminile.
A proposito è doveroso citare anche un caso italiano, quello dell’atleta paraolimpica Valentina Petrillo, prima Fabrizio, che ha intrapreso un inizio alquanto tardo della terapia ormonale, a 45 anni, per poi distinguersi nei campionati femminili di Ancona a marzo arrivando a conseguire ben 8 titoli master nella categoria. La transizione ha aiutato tanto che gli statistici che ne hanno studiato la performance definiscono un “atleta non di rilievo” come “potenziale partecipante alle Olimpiadi”. La transizione cambia la vita, sostengono gli arcobalenati: e su questo tutti concordano che sia un dato di fatto, soprattutto un atleta che nella categoria maschile di titoli master non ne ha conseguito nemmeno uno.
La questione ha anche visto uno scontro diretto fra Petrillo e la Fidal, la Federazione Atletica Italiana, che ha assegnato all’atleta uno spogliatoio a parte separato da quello delle altre ragazze, che molto transfobicamente si sono rifiutate di “condividere la doccia con una persona che, allo stato attuale, ha il corpo di un uomo”. Il che è stato sentito come discriminatorio dal prodigio della corsa in erba, che a proposito ha dichiarato: “Non credo che chi ha scritto quel commento non abbia mai visto dei genitali maschili, […] né vedo le donne avendo gravi problemi visivi”.
Ed ecco come il ribadire niente meno che l’ovvietà sia diventato un atto rivoluzionario, trasgressivo, assurdo, con un paradosso degno dei romanzi distopici più pessimisti. La verità è diventata scomoda, politicamente scorretta, e se per silenziarla è necessario far crollare le millenarie basi dei valori dello sport e della competizione, o della realtà stessa, così sia. Perché al di là di ogni condanna logica alla retorica della transizione di genere, rimangono sempre l’etica e i valori dello sport, le cui basi si fondano sull’equità degli atleti in competizione: l’assenza quindi di un vantaggio iniquo tra le parti in gara. Innumerevoli studi (già è paradossale che siano stati necessari) hanno confermato la superiorità fisica maschile. Una condizione che da sé costituisce un vantaggio iniquo, perché non ci può essere uguaglianza fra corpi maschili e femminili nelle competizioni sportive.
Ma tornando agli Stati Uniti, al momento centro focale della questione: se a livello federale il veto di Biden appare inevitabile, una fonte di speranza può arrivare dai singoli stati che si stanno muovendo per far approvare la legge della Camera nel loro territorio nazionale. Al momento se ne contano una ventina, ma pare che il numero sia destinato ad aumentare nei prossimi mesi.
Non resta che aspettare l’evolversi della questione, destinata a ritornare in auge non solo negli Stati Uniti, in prossimità delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, ma a livello mondiale, a ridosso delle Olimpiadi di Parigi del 2024. Quel che è certo è che i paradossi e le pretese del mondo arcobaleno stanno iniziando non a incrinarsi, purtroppo, ma a riscontrare sempre più divergenze col passare del tempo. E quel che si spera è che, al di fuori del mondo della politica, del “destra contro sinistra”, si costituisca un’opposizione sempre più ferma a difendere la realtà e la verità dei fatti, che tutto può essere ma non ideologica.
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