Di Bianca
È di poche settimane fa la notizia della netta opposizione dell’Italia alla cosiddetta carne in vitro, cioè la carne “coltivata” in laboratorio. Alla seduta del Consiglio dei ministri del 28 marzo, infatti, il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ha presentato un disegno legge che vieta e sanziona la vendita, la distribuzione, la somministrazione e la produzione della carne sintetica sul territorio nazionale.
In realtà la definizione di “sintetica” di questa carne risulta abbastanza azzardata. Non si tratta, per esempio, di carne stampata in 3D, un’altra alternativa alla carne convenzionale che oltre a essere già distribuita in diversi supermercati d’Europa viene anche servita in alcuni ristoranti; un progetto a cui tra l’altro sta contribuendo una start up italiana, la Novameat. La carne in vitro, infatti, viene prodotta partendo da autentiche cellule animali, da cui vengono isolate quelle muscolari staminali (che in natura sono in grado di generare nuovi tessuti in caso di lesioni). Queste cellule vengono poi indotte a moltiplicarsi fino a formare gli strati di fibre muscolari che verranno poi trattati a seconda dei diversi prodotti a base di carne che si vogliono ottenere.
È un dato di fatto dunque che a livello biologico e alimentare la carne in vitro non presenta differenze con la carne tradizionale, quindi la questione sarebbe ridotta all’impatto ambientale della carne artificiale rispetto a quella convenzionale. Contro la proposta di Lollobrigida sono presto insorti (tutti senza nessuna implicazione politica, ovviamente…) diversi movimenti ambientalisti e anche l’OIPA (l’Organizzazione Internazionale Protezione Animali), a difesa della produzione della carne in vitro che offre lo stesso prodotto degli allevamenti intensivi, ma evitando i maltrattamenti degli animali, costretti in condizioni di vita inaccettabili, e il pesante impatto sull’ambiente e sulla salite dei consumatori.
A proposito, inoltre, si è riunito di recente il Consiglio dei ministri dell’Ambiente dell’Unione Europea per discutere la revisione della direttiva sulle emissioni, che proponeva l’aggiunta degli allevamenti intensivi di bovini nella lista degli agenti inquinanti. Una revisione che l’Italia, insieme ad altri Paesi europei, non ha accolto.
Tuttavia è risaputo che gli allevamenti intensivi hanno un impatto ambientale non indifferente: sono secondi solo agli impianti di riscaldamento per l’inquinamento dell’aria, e con le loro emissioni di ammoniaca contribuiscono alla formazione di polveri sottili molto più del sistema dei trasporti. A questo non si aggiungono solo le deplorevoli condizioni di vita degli animali, ma anche tutti gli altri sistemi collegati alla loro macellazione, come lo sfruttamento intensivo dei campi per i mangimi, oltre a un’alimentazione eccessiva con aggiunta di antibiotici con le conseguenze che sappiamo sulla salute dei consumatori.
A fronte di questi dati di fatto, però, occorre fare un quadro generale sui numeri degli allevamenti intensivi in Italia, e su quanto questa situazione sia impattante nel nostro Paese. Stando ai dati del 30 giugno 2019 della Banca Dati delle Anagrafi Zootecniche (BDN), la produzione della carne in Italia si affida a circa 270 mila allevamenti di bovini, bufalini, ovini e caprini, includendo poco più di 3000 macelli (dati del 10 gennaio di quest’anno). Numeri, tra l’altro, in costante diminuzione rispetto agli anni precedenti: se nel giugno del 2018 la BDN contava 106 mila allevamenti di bovini da carne, all’inizio del 2020 il numero era ridotto a circa 100 mila in meno di due anni.
Greenpeace, uno degli oppositori più accaniti del ddl contro la carne in vitro, ha segnalato 894 allevamenti intensivi inquinanti sul nostro territorio nazionale, presenti anche nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti delle sostanze inquinanti (E-PRTR).
Dall’analisi oggettiva di questi dati ufficiali, è scontato appurare che il confronto non regge. Gli allevamenti intensivi sono sì una realtà presente nel nostro Paese, ma ben lontano dalle tinte catastrofiche predicate da Greenpeace e da altri movimenti ambientalisti, o, manco a dirlo, da chi promuove l’abbandono del consumo della carne, in toto o di quella “tradizionale”.
Non si discute il dovere di condannare la produzione intensiva della carne. Ma per limitare e un giorno, forse, eliminare del tutto, i danni causati dagli allevamenti intensivi, sarebbe logico e opportuno intervenire sui metodi di produzione della carne, e non sul consumo della carne stesso, andando a colpire un settore in crescita negli ultimi anni, che soddisfa migliaia e migliaia di consumatori.
Non si tratta inoltre di una sola scelta etica. L’Italia, come sappiamo bene, vanta numerose eccellenze nei prodotti a base di carne da tutelare e riconosciute anche a livello internazionale. Il nostro paese conta inoltre più di 69.000 aziende produttrici nel settore biologico, ben il 25% sul totale europeo, a testimonianza dell’esistenza di una consapevolezza della qualità degli alimenti in cui non siamo secondi a nessun altro.
Infine il passaggio di produzione da un allevamento intensivo a un allevamento biologico, o comunque non intensivo, non sembra richiedere una conversione costosa e complessa a contrario di altri settori industriali. L’abbandono del consumo della carne tradizionale, quindi, è una prospettiva che l’Italia può risparmiarsi, se si attua un miglioramento delle attuali condizioni di produzione senza negare il consumo a chi lo desidera.
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