Di Sergio.
Si è cantata troppo presto la “fine delle idee” e il tramonto delle ideologie, come se non credere più in nulla fosse un ragguardevole risultato, come se il disimpegno dalle idee ci avrebbe condotto in un nuovo eden dove rosso e nero si sarebbero finalmente diluiti fino a scomparire. Come spesso accade ai cantori della fine della storia – qualsiasi tipo di storia – ci pensa proprio quest’ultima a dargli torto: la scuola ancora oggi, anzi, perfino oggi verrebbe da dire, è un luogo cruciale per lo sviluppo di un nuovo divenire storico italiano ed europeo.
La scuola è ancora
Mai come oggi sulla scuola pubblica corre una linea del fronte da far impallidire quella del Piave. Non esageriamo se affermiamo che tra i banchi si gioca una delle partite più importanti dei prossimi decenni: la scuola è lì, al bivio di molteplici tendenze culturali e politiche che si stanno manifestando sotto due principali stendardi, il progressismo e la conservazione, accumunate da una visione nozionistica e atomistica dell’istruzione. “Il liberalismo e il boslcevismo – scriveva Pound in ‘Lavoro e usura’ – si accordano intimamente nel loro disprezzo fondamentale della personalità umana”. È così che i due schieramenti politici eredi del binomio novecentesco, centrodestra (liberal-conservatori) e centrosinistra (demo-progressisti), tentano ognuno dal proprio lato e con i propri mezzi di imporre una scuola dai forti connotati repressivi, non solo dal punto di vista strettamente “disciplinare”. Da un lato abbiamo avuto dei governi di centrodestra che a partire dalla Riforma Moratti del 2003 a quella Gelmini del 2008 non ha saputo proporre dei modelli di scuola alternativi a quelli della sinistra, anzi, sembra aver agito di stizza contro un mondo ritenuto appannaggio esclusivo dei “rossi”. Ecco quindi che con la Gelmini abbiamo il primo “mattatoio”, in termini di tagli, depotenziamenti e sostanziosi ridimensionamenti. Dall’altro lato la sinistra ha continuato il suo progetto di “svendita”, abbandonando i vecchi dilemmi sessantottini per portare avanti una privatizzazione aziendalista della scuola, palesata nel 2015 con la “Buona Scuola” di Matteo Renzi, ma sapientemente mascherata con i diktat della cultura global: il solito antifascismo ma con la patina “rosa” dei diritti delle minoranze, quella “grigia” della cancel culture anti-nazionale e quella “verde” del gretinismo mainstream.
Imposizioni miopi
Ciò che colpisce nel convergere di queste tendenze è l’assoluta miopia politica di schieramenti che non hanno saputo guardare oltre il loro naso. Un errore – in questo caso specifica volontà – che si è manifesta nei governi tecnici, prima Monti poi Draghi, acclamati come i nuovi angeli salvatori della cosa pubblica. Nel Documento di economia e finanza (DEF) approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso anno vediamo come i fondi stanziati in favore della scuola sono stati ridotti: dal4,0% del Pil, si passerà al 3,5% entro il 2025. Per rendere l’idea, secondo i dati dell’Eurostat, nel 2018 con il 3,9 del Pil destinato all’istruzione l’Italia si è classificata al quartultimo posto in Europa. Peggio solo Bulgaria, Irlanda e Romania. La media dei Paesi dell’Unione è del 4,7% di prodotto interno lordo destinato alla scuola, entro il 2025 l’Italia potrebbe quindi collocarsi all’ultimo gradino continentale. Il Governo ha giustificato il taglio sostanzioso come un semplice “razionamento” in vista del calo demografico. Visioni miopi accomunate da uno spirito di rassegnazione e decrescita (in)felice, che taglia e depotenzia, comprime e reprime, relegando i più giovani all’imbuto sempre più stretto di precariato, emigrazione e depressione.
L’avvento della “distocrazia”
Bisogna aggiungere anche il clima che in Italia, e nel resto del mondo si va condensando in quella che Marcello Veneziani ha definito come “la cappa”, o in termini meno poetici come “distocrazia”: un neologismo uscito nel 2021 sul documento-manifesto “Infuriati!” redatto dal movimento del Blocco Studentesco, che unisce in un termine distopia e democrazia, definita come la “macabra unione tra distopia orwelliana e panottica con la democrazia progressista e liberista”. Gli studenti si ritrovano ad affrontare non solo una battaglia di semplice “sindacalismo”, ma soprattutto una battaglia culturale e generazionale. La propaganda del progressismo ha raggiunto i programmi scolastici e già da anni è filtrata la teoria gender e quell’insopportabile cancel-culture che tenta di demolire la “lunga memoria dei popoli europei”. Ecco quindi che la scuola italiana è una struttura precarizzante, svuotata di significato, standardizzante al ribasso, utile solo alla creazione del cittadino del mondo perfetto. Un non-cittadino in effetti, dato che si favorisce in ogni ambito la deresponsabilizzazione e il disimpegno dalla vita pubblica. Abbandonare il campo della scuola a questa logica significa abdicare a qualsiasi aspirazione sul futuro: siamo già molto in ritardo, aggiungerei. “Quale principio d’educazione si fonda sulla repressione?”, si chiedeva Giuseppe Mazzini. La repressione genera repressi, compressi e soprattutto depressi: il dato sui suicidi a corollario della disoccupazione giovanile, il calo demografico e l’emigrazione, è tragicamente indicativo di una scuola che non nutre nessuna ambizione, che non aiuta nessun “io” a sublimare in “noi”, che non garantisce nemmeno più il famoso “posto fisso”. Gli studenti incontrano nel loro percorso un luogo in tutto e per tutto uguale a ciò che lì aspetta fuori: individualismo, digitalizzazione, precariato, automatismo, standardizzazione. Non incontra persone migliori. Tra studenti e docenti non c’è una reale differenza: sono tutti figli del consumismo-digitale e solo come tali sanno comportarsi. Mancano soprattutto gli esempi. La scuola non stimola curiosità e coraggio a venir fuori: dove spesso si manifesta però entra in campo la censura.
La sfida partecipativa
La soluzione è chiara: è lì dove si tende a costruire il cosiddetto “homo oeconomicus” che può essere distrutto e perfino superato. Il luogo è quindi la Scuola: impegnarsi politicamente e attivamente nella scuola, con gli studenti, appare ormai vitale come l’aria che respiriamo. Accantoniamo quindi le malsane idee di “tirarsi fuori” in favore di un utopico passaggio al (fanta)bosco. “Gli studenti non sono vasi da riempire – scriveva Plutarco – ma fiaccole da accendere”. Per quanto difficile, il primo passo verso una scuola non solo pedagogica ma anche anagogica –in grado di elevare l’individuo – è proprio quella di liberarsi della cosiddetta “cultura generale”. Bisogna fare i conti con l’unica verità possibile rispetto all’istruzione: non c’è niente di dovuto, niente di per forza “accessibile a tutti”. Per forza, appunto. L’educazione è essenziale ai fini di una Nazione – non incito l’abbandono scolastico, d’altronde mai stato così alto, oggi, con l’obbligo costituzionale – ma non se questa si regge sull’imposizione coatta, essenzialmente diseducativa, perché imprime nelle menti l’idea disgregante per eccellenza: la libertà è un diritto. Noi che sappiamo benissimo il contrario dobbiamo promuovere una rifondazione della scuola in ottica volontaristica e partecipativa, dove gli studenti non siano solo oggetti ma anche attori: dobbiamo creare la scuola per l’homo volontarius.
Per una selection-culture
Bisogna adottare una cancel culture alla rovescia, una selection culture, se volete.Una cultura in grado di rivitalizzare un mondo dove “cultura” è tutto e niente, ma soprattutto memoria e contemplazione. Selezionare quale atto politico potrebbe essere un modo per far tornare il discorso su di un’asse qualitativo che guardi con fiducia al futuro: una scuola che sappia orientarsi, in accordo con le esigenze della Nazione, allo sviluppo di capacità tecniche e psico-motorie, ma anche all’arte di saperle padroneggiare, di saper scegliere. La cancel-culture non è fatta solo di terrorismo simbolico ma anche e soprattutto di terrorismo culturale che nelle scuole trova il suo campo preferito per mancanza di una contro-volontà. La Cultura con la “C” maiuscola, spesso invocata dai conservatori, contro cui si staglierebbe la barbarie comunista, è solo museo ed antologia che finisce per trovare il male in tutto ciò che viene a disturbarne la quiete: una stasi valoriale che chiude le porte alla “storia” e all’”evento” nella stessa misura del mondo consumista. In fondo consumismo vuol dire alimentarsi di feticci: che siano le scarpe della Nike o la Venere di Milo, è l’oggetto che diviene fine e non strumento. Quindi no. Non c’è la cultura ufficiale della tradizione da difendere, ma una cultura della volontà da imporre. La cultura nasce quando si raggruppano insieme idee, esperienze, opere e mezzi per uno scopo. Ci sono culture e culture quindi, prospettive, ma soprattutto scelte di un programma storico rispetto ad un altro. Sulla scuola è ora di scegliere la nostra storia.
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