Di Andrea

A un anno dall’inizio delle ostilità in Ucraina, segnato dall’invasione delle truppe russe nel paese, tornano alla mente diverse riflessioni sviluppate nel corso della storia sul rapporto tra l’azione politica e la pratica della guerra. La presenza di un conflitto di tale portata interno all’Europa ha fatto sì che i principali soggetti politici s’interroghino sulle condizioni primigenie dello scontro e del conflitto tra due o più entità differenti: come spesso è accaduto, la guerra si è fatta portatrice di una forza vitale intrinseca di rinnovamento ideale e culturale. La mobilitazione di istituzioni, apparati o individui porta sempre con sé uno slancio di volontà che può essere declinato in moltissimi modi.

Storicamente si possono schematizzare, in modo molto generale e superficiale, tre diverse concezioni o tradizioni riguardo un’analisi filosofica e politica della guerra: il cosiddetto realismo politico (questa visione si può ritrovare nelle speculazioni di diversi autori come Tucidide, Hobbes, Hegel o Schmitt) il quale concepisce la guerra come una prassi inevitabile all’interno di una arena internazionale senza regolamentazioni e spogliata da qualsiasi concezione morale o etica, ma vista solo come una necessità materialista propria di un qualsiasi Stato o soggetto politico per raggiungere i propri scopi. Diametralmente opposta può essere posizionata la critica negativa di ogni tipo di guerra, portata avanti, ad esempio, da Kant ne “Per la pace perpetua”, la quale risente molto dell’influenza dell’Illuminismo e del Cristianesimo delle origini, assolutamente contrario ad ogni tipo di scontro. Una terza tradizione è quella che ricalca il concetto romano di “bellum iustum”, e conseguentemente la distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste. Il fascismo stesso attingerà da questo sentiero, composto anch’esso da diverse visioni, ma che nel complesso attribuisce un portato ontologico alla pratica della guerra che va oltre al mero interesse materiale che il realismo politico ha trovato nel liberalismo e in conservatori o reazionari. 
Mussolini, in prima persona sviluppò una vera e propria filosofia della guerra, incontrando un pensatore rivoluzionario proveniente dai ranghi del sindacalismo rivoluzionario, Sergio Panunzio. In un suo testo fondamentale, chiamato appunto “Il concetto della guerra giusta”, l’argomentazione assume toni nietzschiani: la guerra è comprensione del divenire del mondo e conseguentemente, richiamando l’eracliteo “Polemos padre di tutte le cose”, giustifica la vita stessa dell’uomo. Essenzialmente Panunzio afferma che la guerra è giusta quando segna una violazione di uno stato definito, considerato sbagliato, e che a sua volta produca un superamento e l’instaurazione di un nuovo ordinamento. Qui la guerra diventa quasi mito, una concezione rivoluzionaria che ha come obbiettivo il superamento di sé stessi.