Di Bianca
Risale a qualche giorno fa, precisamente mercoledì mattina, il ritrovamento del corpo di una diciannovenne nei bagni dell’università Iulm a Milano. La studentessa, come riportato in un biglietto ritrovato nella sua borsa, aveva deciso di togliersi la vita perché si sentiva un “fallimento”, nello studio e non solo, e di questo chiedeva scusa ai genitori.
Ed ecco l’ennesima vittima di un sistema dell’istruzione indifferente e sfruttatore, che non è mai stato più lontano dagli interessi degli studenti di come lo è ora. L’ennesima vittima che va aggiunta alla lunga lista di studenti che hanno pagato con la vita le mancanze di questo sistema; costretti a un lavoro non retribuito in fabbrica per l’alternanza, o costretti a togliersi la vita perché non vedono un’alternativa.
La totale indifferenza del sistema scolastico e universitario italiano non sono di certo una novità. Si parla dei costi esorbitanti che gli studenti e le famiglie si trovano a sostenere, che siano dei testi di studio, delle rette o degli affitti, che però sono solo la punta dell’iceberg. Alla base si trova sempre quello stesso sistema che ormai sembra che operi negli atenei per “preparare” i giovani al mondo del lavoro, per affrontarlo (meglio dire, subirlo) sul posto di lavoro poi.
È sempre quel sistema capitalistico in cui tutto è spinto al massimo del rendimento, in cui l’individuo deve essere perennemente operativo, al massimo della sua produttività e costantemente dedito alle sue prestazioni: per rispondere a un’esigenza di mercato, non alle sue ambizioni personali. L’arrivo della retribuzione è tutt’altro che concepito come il guadagno del proprio lavoro, ma come la possibilità che permette di continuare a produrre di nuovo, per il mese successivo almeno.
Una dinamica che sembra prettamente lavorativa, ma che negli atenei (e non solo) si concretizza in un sistema di studio nozionistico, fine a sé stesso, con la materia o l’argomento di studio necessari da apprendere solo per l’esito dell’esame; che, una volta superato, non ha più alcun valore, e ci si dedica direttamente a quello successivo, procedendo una sessione per volta, come in una catena di montaggio. Uno studio che non va a formare lo studente per il suo futuro lavoro, ma che lo prepara per la prova che segue, con gli argomenti di studio che si accumulano come una serie di caselle spuntate; simili in tutto e per tutto a dei piani aziendali.
Si è persa la concezione dello studio non solo come strumento di realizzazione per poter svolgere il proprio lavoro, ma anche e soprattutto come arricchimento personale, estraneo da valutazioni ed esami e il cui valore non è classificabile con un voto. Sta morendo la cultura personale, il piacere di conoscere e di formarsi al di fuori di quello che prevedono i piani di studio.
La scelta personale di andare oltre ai programmi universitari sembra appartenere solo ai giovani “prodigio” che conseguono una laurea con uno o più anni di anticipo rispetto ai coetanei, elogiati dalle testate giornalistiche e dagli atenei stessi. Studenti meritevoli senza dubbio, ma che fanno notizia quanto (se non più) dei loro compagni di corso che invece si tolgono la vita, perché non si sentono all’altezza. I successi universitari precoci dei migliori diventano il metro di misura con cui gli altri devono confrontarsi, e in un’università fondata sulla competizione quell’asticella va a determinare il valore degli studenti. Che di fronte alle difficoltà e a certi risultati del loro rendimento pensano di non avere altra scelta se non smettere di provarci. Così il circolo vizioso si chiude e ricomincia.
A tutto questo si aggiunge lo schieramento politico delle università, che previene ogni forma di sviluppo autonomo di pensiero, concedendo quelle famose, immancabili battaglie sociali inclusive che nulla hanno a che fare con la materia di studio. Spazi fasulli per “far sentire la propria voce” che verrà poi silenziata dall’esame successivo, o dall’affitto successivo. Perché non dimentichiamo che fra gli studenti universitari ci sono anche giovani lavoratori, che per sostenere i costi devono anche fare i conti con il mondo del lavoro italiano, specie quello che si rivolge ai giovani tirocinanti o senza esperienza.
A questi ultimi poi vengono costantemente presentate professioni “alternative”, altre scelte di vita e di lavoro decantate come più comode, sicure, redditizie, con un guadagno veloce e senza sforzi, senza alcun bisogno di un titolo di studio o qualsiasi forma di sacrificio o di messa in gioco per guadagnarsi quello che ci si merita.
Non ci si può stupire, quindi, quando si leggono certi dati sulla sanità mentale dei giovani in Italia, o quando tristi notizie di cronaca come quella di qualche giorno fa occupano le prime pagine. Ma solo per un po’, solo per accogliere lo sfogo occasionale di qualche studente o docente universitario, per dare quell’illusione di un impegno sentito per la causa sociale di turno; e quando i fatti non fanno più notizia, si passa a parlare d’altro, fino alla prossima vittima da servizio speciale: un ragazzo che ha perso la vita sotto a un macchinario o una ragazza che se l’è tolta, perché pensava di non avere altra scelta.
Ma per parlare della situazione attuale fra i giovani e l’istruzione è necessario anche guardare ai giovani stessi. Risulta sempre comodo additare le istituzioni, e in Italia oltre a essere comodo è indubbiamente anche inevitabile. Perché se il sistema è corrotto e va contro gli interessi dei cittadini, è logico pensare che questi prima o poi si ribellino alle sue costrizioni e imposizioni per essere tutelati nei loro interessi. E se questo non accade, è proprio perché questa reazione manca negli studenti.
Come sono, quindi, i giovani italiani? Quale critica rivolgergli, per non ricadere nel solito, immancabile ritornello di chi giovane non è più, condito da “ai miei tempi” e “i giovani d’oggi”, che hanno rotto il cazzo a tutti?
Sono giovani che sono stati rinchiusi per due anni, e che risentono ancora quelli che sono stati i coprifuoco, i lockdown, le interazioni sociali azzerate al minimo assoluto, la cieca obbedienza delle istituzioni fondata sulla paura. Giovani a cui, nell’università come nella pandemia, vengono imposte due strade: quella dell’adattamento forzato o del “fallimento”, appunto. Perché un’altra via non c’è, anzi: loro non sono capaci di crearla. Possono solo essere succubi a quel mondo degli adulti che non li capisce e che li sfrutta, e vengono convinti che i loro interessi coincidono con quelli che vengono loro imposti.
Ed ecco ragazzi che non si ribellano, perché la loro unica realizzazione personale è un buon voto all’esame e, in futuro, uno stipendio stabile, a prescindere dalle condizioni da rispettare per ottenerlo. Vengono loro concessi sporadici contesti di sfogo e di vittimismo, per discriminazioni artefatte che nulla hanno a che vedere con la realtà, e queste diventano automaticamente le battaglie degne di essere combattute, che nella vita reale valgono zero.
Sono ragazzi che escono dagli atenei come prodotti in serie, già impostati a servire l’utile come sola fonte di guadagno, e limitati a ricorrere alle cause sociali e politiche di tendenza, illudendosi di venirvi rappresentati. Giovani impreparati a vivere e che di vivere hanno paura, incapaci di affrontare la diversità, il rischio, il fallimento; una diversità che si scontri con la loro, il rischio di osare e di perdere, l’incapacità di fallire. Tutto parte dell’inevitabilità della vita.
Quindi, non è responsabile solo il sistema scolastico e universitario italiano, che ha le sue colpe, indubbiamente. Ma il cambiamento radicale della situazione non può avvenire se i giovani italiani non capiscono che questo dipende solo da loro, e che questo li porterà a costruire e a determinare il loro futuro molto più di qualsiasi 30 o 110 e lode.
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