Di Bianca
Che l’Italia sia colpita da una crisi demografica è un dato di fatto consolidato da anni, anzi, da decenni. Una tematica su cui l’attenzione mediatica si esprime saltuariamente, soprattutto in coincidenza con le analisi annuali delle nascite e delle morti nel nostro paese, esprimendo la solita preoccupazione circostanziale concessa alle notizie che non fanno tendenza.
Il saldo naturale, o demografico, è la differenza fra il numero dei nati e quello dei morti in un determinato periodo, e in Italia è in negativo dal 1993. È da trent’anni, quindi, che in Italia muoiono più persone di quante ne nascano; e, tra il 2008 e il 2019, la percentuale del calo delle nascite si è stabilita al 27%. Il numero degli italiani si è mantenuto oltre i convenzionali 60 milioni solo dal 2012 al 2017, anno da cui poi è iniziato a calare regolarmente. È stato calcolato che fra il 2020 e il 2021 l’Italia ha perso circa 405 mila abitanti, che fra il 2021 e il 2022 si sono ridotti a circa 253 mila. L’anno più critico in assoluto è stato proprio il 2021, dove la quota dei nuovi nati non ha superato i 400 mila, la cifra più bassa in assoluto dall’Unità del 1861.
Quanto peso ha avuto la pandemia? Molto, di certo, ma meno di quanto si pensi: basta semplicemente guardare i dati per accorgersi che un calo così tragico era in atto già da tempo. L’arresto globale forzato dalla pandemia ha sì indubbiamente portato al crollo delle sicurezze degli italiani, più o meno giovani, lavoratori e non, sul loro futuro professionale ed economico. Ma la situazione straordinaria del Covid non ha fatto altro che smascherare una tendenza, portandone i dati alla luce: così per la crisi demografica come per altre problematiche, ha velocizzato dei processi già in corso senza esserne la reale causa scatenante.
Una crisi, quella demografica, che va di pari passo con l’invecchiamento della popolazione. In parole povere, non solo gli italiani stanno diminuendo, ma stanno diventando sempre più anziani. E invecchiando, vanno a intensificare le file dei cittadini dipendenti dai sistemi pensionistici dello Stato che devono essere garantiti da una forza lavoro sempre più in calo. Non è certo per colpa del Covid, infatti, se è stato calcolato che entro il 2100 gli italiani non andranno a superare i 36,9 milioni, con una perdita stimata di circa 22 milioni di persone. Già in 20 anni è prevista la perdita di 6,8 milioni di lavoratori fra i 15 e i 64 anni, contribuendo alla necessaria crescita di un sistema assistenziale che però non sarà più sostenibile.
È quindi da includere, inevitabilmente, anche la questione delle madri lavoratrici. Sappiamo che in uno stato sociale ideale la donna non dovrebbe essere costretta a scegliere fra la carriera personale e il ruolo di madre, in quanto lo stato andrebbe già a provvedere dei sistemi di sostegno tali da garantirle un’entrata economica e il tempo necessario da dedicare al figlio. Una tale possibilità di realizzazione della donna come madre e lavoratrice sembra essere sempre di più un’utopia; non solo perché viene promossa una certa immagine della donna economicamente indipendente, svincolata dai legami famigliari e “libera” di scegliere se essere madre o meno. Ma anche perché non avere figli sta diventando sempre più una rinuncia e non una scelta, in un’Italia dove fare figli è diventato un lusso.
Ma la crisi demografica in fondo è utile per offrire un’ottima occasione per (manco a dirlo) sostenere lo sviluppo dei flussi migratori. Fra le tante buone anime che si esprimono in merito Tania Sacchetti, segretaria confederale della Cgil, non manca di sostenere che “occorre rivedere le politiche migratorie, costruire canali di ingresso per ricerca di lavoro regolari e stabili, attraendo e investendo sulle politiche migratorie come fattore di riequilibrio e di risposta strutturale ai cambiamenti demografici”.
Il problema quindi, per la sinistra, sarebbe già risolto. In sé l’apertura incondizionata dei confini (già in atto, tra l’altro) porta senza dubbio all’aumento numerico di anime sul nostro territorio nazionale, e non servono speciali abilità politiche per capirlo. Numeri che però vanno gestiti ancora prima di un ipotetico inserimento nella forza lavoro italiana, e in merito il governo non ha da che imparare, come sappiamo fin troppo bene. Peccato per la scelta politica, ormai un grande classico, di investire sulle politiche migratorie invece che su leggi interne ai confini nazionali che vadano a beneficio degli italiani, ovvero alla radice del problema.
Da parte del centrodestra, già il programma elettorale per le elezioni del 26 settembre presentava un intero capitolo sulla questione, rivolto al “Sostegno alla famiglia e alla natalità”. Fra i punti proposti, un vero e proprio piano di sostegno alla natalità, con asili nido gratuiti, aumento dell’assegno unico e universale, politiche di conciliazione fra lavoro e famiglia per madri e padri, e diminuzione dell’IVA sui prodotti e servizi per l’infanzia. Tutte misure incluse nella legge di bilancio attuata dalla Meloni, e che va ad applicarsi proprio a partire da questo mese.
Proposte oggettivamente in linea con le soluzioni da attuare per risolvere la crisi demografica: mancano la possibilità economica, sociale e anche lavorativa di fare figli. Serve la presenza di quello Stato Sociale al posto di un governo di burocrati che finora non solo ha abbandonato i suoi cittadini, ma che ha anche portato a un paese con sempre meno italiani.
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