di Enrico

La più complessa e antica questione che gli esseri umani si siano mai posti probabilmente è questa: è possibile essere felici? Ossia, esiste una “ricetta” per la felicità certa e duratura?

Già Aristotele nell’Etica Nicomachea era convinto che sia la massa, sia gli uomini raffinati e attivi, sia i sapienti erano concordi nel dire che il bene pratico più alto porta il nome di “Felicità” (in greco εὐδαιμονία), anche se poi erano in disaccordo per quanto riguarda l’identificazione dell’essenza della stessa. I primi la identificano col piacere, i secondi con l’onore e i terzi con l’agire secondo ragione.

Secondo altri, come gli epicurei e gli stoici, una possibile strada verso la felicità consiste nel raggiungimento dell’assenza di turbamenti esterni (ἀταραξία).

Addirittura, per Seneca essa corrisponde al farsi cogliere dalla morte nel momento di maggior felicità, il che naturalmente comporta il sostenere che il fine ultimo dell’uomo sia un costante stato di felicità, poiché non ci è dato sapere in quale momento la morte ci coglierà.

Ma il problema è sempre lo stesso: è possibile uno stato di felicità intenso e duraturo?

Non solo i pensatori, ma persino costituzioni e società intere si sono poste come obiettivo di dare una risposta a questa esigenza umana. Basti pensare alla costituzione degli Stati Uniti (scritta in buona parte da Thomas Jefferson), in cui si parla esplicitamente di “inalienabile diritto al perseguimento della felicità”.

In un certo senso, persino l’attuale società consumista si propone di soddisfare questo bisogno, permettendo alle persone di comprarsi ogni tanto una piccola dose di felicità attraverso l’acquisto del nuovo modello di iPhone, di automobile e via dicendo. Ed è proprio questa la ragione del successo e della costante intensificazione del consumismo: il bisogno umano della felicità. Perché se la felicità si identifica con un singolo atto specifico, delineato nel tempo e nello spazio (come l’acquisto di un telefono cellulare), il bisogno della stessa felicità ci porterà naturalmente a dover ripetere quel singolo atto specifico sempre più spesso, come per una sorta di assuefazione.

Già, perché anche se degli eventi possono darci una temporanea sensazione di felicità (che sia un nuovo contratto di lavoro ben pagato o l’acquisto del nuovo iPhone), la noia, l’abitudine, l’inedia e il “ritorno alla normalità”, sono sempre dietro l’angolo.

Questo potrebbe dunque portarci a pensare che la felicità non risiede in uno “standard” ben definito, ma nella realizzazione più intima della nostra soggettività. Ma anche qui c’è un problema non indifferente: se la felicità è totalmente soggettiva, poiché ciò che rende felice me può non coincidere con ciò che rende felice qualcun altro, nulla ci impedirà di sostenere che la felicità possa risiedere anche nel togliere la vita ad altre persone. La psicopatologia moderna ha ampiamente dimostrato che esistono persone che traggono felicità e appagamento dal provocare sofferenza o addirittura dal togliere la vita ad altre persone.

La felicità va dunque davvero perseguita ad ogni costo?

Anche se avessimo la possibilità di eliminare la sofferenza e l’infelicità dalla nostra vita, questo porterebbe con sé problemi etici e filosofici non da poco. Da sempre infatti, l’essere umano utilizza la sofferenza in modo utile. La sofferenza, per quanto possa sembrare paradossale, è un prezioso strumento datoci dalla nostra natura di esseri umani,poiché essa ci permette di capire che c’è qualcosa che non va. Dunque, eliminarla dalle nostre vite vorrebbe dire rinunciare ad uno strumento per accorgerci del non funzionamento di qualcosa.

Per rispondere alla domanda da cui siamo partiti, probabilmente la felicità duratura ed oggettiva non esiste oppure, se esiste, ha un prezzo elevatissimo. Quello della nostra superficialità, se scegliamo di perseguire il modello consumista o quello della sofferenza altrui, se scegliamo invece di perseguire il modello stoico – epicureo dell’ultra-soggettività della felicità.

L’unica certezza che abbiamo in questo dibattito è che il proporsi, da parte di una società (come nel caso del consumismo), il raggiungimento della felicità oggettiva e materiale come obiettivo primario è solo un tentativo di rassicurare chi ha paura della sofferenza e vuole completamente spegnere la mente per consegnarsi, anima e corpo, ad una società che pensi al suo posto e decida per lui cosa dà la felicità e cosa no.