di Michele

È terminato da non molto il viaggio terreno di Hakim Bey, “Uomo Saggio”, al secolo Peter Lamborn Wilson, il quale è morto il 22 maggio di quest’anno all’età di settantasette anni. Padre dell’anarchismo ontologico e delle T.A.Z. (Zone Autonome Transitorie), è stato una delle voci più importanti e singolari della controcultura americana del secolo scorso.

Capace di evocare atmosfere cyberpunk e destreggiarsi fra esoterismo e autori tradizionali, Hakim Bey è sicuramente lontano dall’immagine di un anarchismo ottocentesco e positivista, ancorato alla fede incrollabile nel progresso – un anarchismo alla Kropotkin per intenderci. Queste contaminazioni, per così dire, tradizionaliste sono nobilitate dai lunghi soggiorni che effettuò in Oriente, in particolare nell’Iran dove dimorò per diversi anni. Conoscitore di un certo spessore del sufismo, fu anche traduttore in inglese dell’orientalista francese Henry Corbin

Ciò lo porta anche a frequenti invasioni nel campo “avverso”, tanto da citare ed encomiare Pio Filippani Ronconi per i suoi studi sugli ismaeliti senza farsi troppi problemi sul fatto che l’italiano fosse una “ex SS non pentita” (come ricorda il sempre ottimo Guido Taietti che ad Hakim Bey ha dedicato un video sul suo canale youtube Progetto Razzia). Un altro caso è quello dell’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio che Bey propone come esempio di T.A.Z. e di moderna repubblica piratesca.

Meno importante ma piuttosto indicativo, è il breve testo Istruzioni per il Kali-Yuga facente parte dei Comunicati dell’Associazione per l’Anarchismo ontologico, in cui giunge a conclusione dal sapore evoliano, affermando la necessità di “attraversare il CAOS, cavalcarlo come un tigre”. Un atteggiamento di apertura piuttosto lontano da certi isterismi cui il movimento anarchico ci ha abituato. 

Tra i contributi più importanti di Bey c’è sicuramente il concetto di T.A.Z., il quale non ha avuto rilievo solamente da un punto di vista teorico o dell’immaginario, ma si è concretizzato nella stagione dei rave e delle occupazioni fino all’esperienza tragicomica della CHAZ, zona autonoma di Seattle nata durante le proteste di Black Lives Matter per l’omicidio di George Floyd da parte della polizia.

Le T.A.Z. sono fenditure e coni d’ombra che si sottraggono al controllo dello Stato: “la taz è come un’insurrezione che non si scontra direttamente con lo Stato, un’operazione guerrigliera che libera un’area (di terra, di tempo, di immaginario), poi svanisce per formarsi altrove, in un altro tempo, prima che lo Stato posso schiacciarla”.

Per loro stessa natura le T.A.Z. sono effimere, perché sono come spaccature all’interno delle maglie del potere, il quale persegue un controllo morboso ma impossibile, lasciando necessariamente sul campo punti ciechi. Questi vuoti che si creano all’interno del dispiegarsi di quel grande Leviatano che è lo Stato moderno, possono essere occupati da quanti riescono ad attuare tattiche di “mordi e fuggi” e sfruttate per “le proprie attività goderecce”.

Per Bey, il Novecento è il secolo della “chiusura della carta geografica, in cui non ci sono più territori ignoti e il potere, il quale è sempre una territorializzazione o – per meglio dire – un’appropriazione indebita del territorio, può ambire ad un controllo totale: “neppure un centimetro quadrato di Terra rimarrò senza polizia e senza tasse… in teoria”. Ma questa chiusura rappresenta un’astrazione, perché il potere si appropria di quei territori attraverso una griglia, una carta concettuale che non può aderire completamente alla realtà. Qui si creano quegli spazi interstiziali da cui le T.A.Z. possono fuoriuscire.  

Il modo di appropriarsi dello spazio da parte delle T.A.Z. è una sorta di fuga, uno sparire nella “tana del topo” per nascondersi dalla Babilonia mondiale. Le T.A.Z. sono un altrove che vivono uno spazio de-territorializzato. Ma se il nesso tra spazio e potere è confermato anche da Bey, ciò significa che quello delle T.A.Z. è uno spazio impolitico perché implica la rinuncia a quello stesso spazio. Consapevolmente Bey rinuncia alla rivoluzione, cioè ad un progetto autenticamente politico, preferendo ad esso l’idea dell’insurrezione. Le T.A.Z. sono disponibili per un godimento edonistico, non per un significato politico. 

Per Bey, le rivoluzioni hanno tutte una parabola fissa e per nulla auspicabile: “rivoluzione, reazione, tradimento, fondazione di uno Stato più forte e ancor più repressivo”. L’insurrezione esce da questa logica, proprio in quanto è un atto momentaneo, una “operazione autoreferenziale”, significa sollevarsi e abolire la dialettica del potere, è “un momento che scaturisce dal Tempo, e viola la ‘legge’ della Storia”, è il tempo della festa e l’abolizione del quotidiano.

La T.A.Z. è lo spazio e il modo di questa insurrezione, che però è un approccio obliquo, una tattica di guerriglia, perché altrimenti sarebbe votata al martirio in quanto il confronto con lo Stato e soprattutto con questo Stato è un confronto impossibile da sostenere. 

Queste sono quindi spazi effimeri, non-luoghi in cui temporalità e territorialità vengono aboliti, da perdere e conquistare continuamente, come “Utopie pirata”, rette da una rete d’informazione (che per la contemporaneità è il web stesso) di persone che inseguono il filo sottile di questo altrove. Ma l’esito a cui giunge Bey è paradossale. Oltre che impolitico – ma da buon anarchico questo non gliene frega nulla – il godimento edonistico a cui sono votate le T.A.Z. è perfettamente in linea con la società dei consumi e dello spettacolo che viviamo oggi.

In Bey c’è la ricerca di un godimento autentico che finisce per assomigliare ad un consumo autentico. Il problema sono i sapori artificiali dei cibi, il feticismo per merci che non hanno valore. Se c’è un altrove, non c’è un ulteriore. Né nello spazio orizzontale della comunità, né in quello verticale del sacro. Ma in fondo ogni anarchico non è nient’altro che un egoista.