Di Geox
Il dottor Zivago di Boris Pasternak, di cui riporto un breve e significativo brano, è senza dubbio un libro da leggere e da rileggere. Soprattutto, perché raccontandoci le vicende del protagonista al tempo del trionfo del collettivismo, ci svela una grande verità: non importa quanto assoluta possa apparire la vittoria del totalitarismo, quanto oppressivo e avvilente il suo dominio; noi continueremo a vivere, ad amarci, a sognare, e a desiderare la libertà, a coltivarne il seme nel nostro animo, e mai, nonostante tutto il suo potere, l’ottuso Leviatano conquisterà i nostri cuori. Ed è questo il suo inevitabile destino, essere sconfitto proprio nel momento del suo trionfo.
Ma non c’era tempo di far congetture. In strada cominciava ad imbrunire. Doveva sbrigare molte faccende prima che facesse notte. Non ultima preoccupazione, quella di prender conoscenza dei decreti affissi nella via. Non erano tempi in cui si scherzasse. Per una semplice ignoranza si poteva pagare con la vita la trasgressione a qualche nuova ordinanza. E, senza aprire la porta di casa, senza togliere la bisaccia dalle spalle affaticate, scese in istrada, davanti al muro che per un largo tratto era fittamente coperto di stampati di ogni genere.
Erano articoli di giornale, estratti di discorsi tenuti alle riunioni e decreti. Scorse di sfuggita i titoli. “Sull’ordine di requisizione e di tassazione delle classi abbienti. Sul controllo operaio. Sui comitati di fabbrica e d’officina.” Erano le disposizioni del nuovo potere subentrato nella città che andavano abrogando gli ordinamenti precedenti. Le nuove autorità ricordavano ai cittadini il rigore dei propri provvedimenti, che forse essi avevano dimenticato sotto la temporanea amministrazione bianca. Ma la prolissità di quelle monotone ripetizioni faceva girare la testa a Jurij Andrèevic. A quali anni risalivano quei titoli? Ai tempi del primo rivolgimento o ai periodi successivi, dopo alcune rivolte bianche scoppiate nel frattempo? Che scritti erano quelli? Dell’anno avanti? Di due anni prima? Una volta nella sua vita si era entusiasmato per l’incontrovertibilità di quel linguaggio e la linearità di quel pensiero. Possibile che dovesse pagare quel suo incauto entusiasmo col non avere davanti ormai più altro per tutta la vita se non quelle forsennate grida e ordini perentori che nel corso degli anni non mutavano, anzi, col passare del tempo, diventavano sempre più astratti, incomprensibili e inattuabili? Possibile che per essere stato un istante consenziente, fosse divenuto schiavo per sempre?
Il frammento lacero di un resoconto gli cadde sotto gli occhi. Lesse:
“Le notizie a proposito della carestia dimostrano l’incredibile passività delle organizzazioni locali. I casi di abuso sono evidenti, la speculazione mostruosa, ma cosa ha fatto l’Ufficio dei sindacati locali, che cosa hanno fatto i Comitati di fabbrica e di officina della città e del territorio? Finché non effettueremo perquisizioni di massa nei depositi dello scalo di Jurjatin, nei settori di Jurjatin-Razvil’e e di Razvil’e-Rybalka, finché non applicheremo severe misure repressive, ivi compresa la fucilazione sul posto degli speculatori, non ci sarà salvezza contro la carestia.”
“Che invidiabile cecità!” pensò. “Di quale pane si può parlare, quando da tempo in natura non ce n’è più? Quali classi abbienti, quali speculatori, quando tutti questi sono da tempo distrutti, dalla logica dei decreti precedenti? Quali contadini, quali villaggi, se non esistono più? Come fanno a dimenticare i loro stessi progetti e provvedimenti che da tempo non hanno più lasciato pietra su pietra? Che cosa debbono essere per farneticare di anno in anno, con simile febbrile, implacabile ardore su argomenti inesistenti, da tempo esauriti, e non voler nulla vedere intorno a sé?”
Ebbe un capogiro, perdette i sensi e cadde svenuto sul marciapiede. Quando riprese conoscenza e lo aiutarono a rialzarsi, gli offersero di accompagnarlo dove desiderava. Ringraziò e ricusò l’aiuto spiegando che doveva soltanto attraversare la strada ed entrare nella casa di fronte.
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