UN CONSIGLIO CINEMATOGRAFICO PER NON SOCCOMBERE ALLA DECADENZA OFFERTA DA ZEROCALCARE E COMPAGNI

Di Geox

Strappare lungo i bordi”, serie scritta e diretta da Zerocalcare e presente nel catalogo Netflix, è il fenomeno di quest’anno: non esiste pagina, social, amico e/o conoscente che non l’abbia nominata almeno una volta. Diciamoci però la verità, al di là delle questioni tecniche (qualità delle animazioni, direzione del doppiaggio, presenza del romanesco, ecc.) con questo prodotto, al pari della stragrande maggioranza di contenuti multimediali dati in pasto oggi ai giovani, si premia la pigrizia, la mediocrità, il disagio, si premia la decadenza della gioventù e dell’intera società. Allo spettatore medio si cerca di inculcare il fatto che, ad esempio, il prendere botte ad una manifestazione è solamente una cosa di passaggio, come se il gesto di ribellione contro un sistema marcio rappresentasse solamente una sorta di rituale: “quando sei giovane rompi pure un pochettino il cazzo, ma poi DEVI crescere”.

Questa serie può essere vista come un gigantesco inno all’essere tutti metaforicamente dei pompieri, a spegnere il fuoco, l’energia, l’entusiasmo della giovinezza che ciascuno di noi possiede, eliminando quindi anche l’individualità propria e virando, piuttosto, verso una sorta di omologazione generale e generazionale. Questo è il post-modernismo dei tempi odierni, con una società che si sollazza e si anestetizza attraverso una serie di giochi e autocompiacimenti filosofici spiccioli, dicendosi che in fondo il mondo e la vita sono sempre andati avanti in questo modo, al di là delle leggi e dei principi universali propri dell’essere umano (ben descritti ad esempio da Shakespeare, più di 400 anni fa).

Facciamo questo confronto: chiunque di noi nella vita si è trovato in un momento nel quale non ha trovato il coraggio di fare il primo passo, di esprimere le proprie emozioni; queste dinamiche sono eterne, infinite e rappresentano la complessità e la bellezza del genere umano. In “Strappare lungo i bordi” però assistiamo ad un ragazzo che non sa montare una ruota di scorta, che non sa rimettere al suo posto un tizio che se ne approfitta dell’amica in difficoltà. Insomma, nel pieno rispetto dello Zeitgeist odierno, assistiamo ad un continuo rimando al concetto di delega, al non assumersi le proprie responsabilità.

A questo proposito chi scrive suggerisce un altro contenuto ben più meritevole: “Locke”, un film di Steven Knight (creatore non a caso della serie “Peaky Blinders”), con Tom Hardy, Olivia Colman, Ruth Wilson, Andrew Scott e Tom Holland.

L’opera narra di Locke, un uomo di successo, che ha raggiunto una solida posizione professionale e una soddisfacente vita privata. Alla vigilia della più grande sfida della sua carriera, una telefonata provocherà il crollo dell’intera sua esistenza. Il film racconta pertanto la tragedia di un uomo vissuta nell’arco di una notte, nella quale il suo universo inizia ad andare in pezzi durante un viaggio in auto.

Locke è un prodotto valido sotto molteplici aspetti: registico, tecnico, narrativo e attoriale. Pur essendo ambientato in una singola location (automobile) e con un singolo attore (un magistrale Tom Hardy), non si tratta di un puro esercizio di stile perché altrimenti si sarebbe scaduti nel manierismo. C’è invece la volontà di trasmettere un concetto assai profondo che però, almeno a livello razionale, è sfuggito alla maggior parte della critica che pure ha lodato il film, limitandosi però agli aspetti tecnici.

Sto parlando di quello che emerge e che rimane alla fine di questa storia e che fa parte probabilmente della volontà del regista Steven Knight, il quale riesce a trasmettere un profondo concetto morale senza scadere nel moralismo d’accatto, evitando accuratamente le trappole degli stereotipi narrativi e dei predicozzi pedagogici ed esplicativi per il pubblico “semplice” (in visibilio al momento per Zerocalcare, Squid Game e prodotti affini).

Locke infatti, e questa sembra la cosa più rilevante che giganteggia su tutto il resto, è un film che parla della necessità, oggi più che mai, di recuperare ognuno il proprio senso di responsabilità. Parla della fondamentale importanza di assumersi il peso delle proprie scelte e dei propri errori; di capire le implicazioni delle proprie azioni. In quest’epoca dove la cultura della delega ci è stata inoculata fin dalle fondamenta per endovenosa in ogni aspetto della nostra vita, Locke è un rarissimo esempio di cinema che lancia un messaggio importante perché non annacquato da ideologie trasversali e distorte.

Siamo in presenza di un film etico e morale che non scade però nel moralismo; è avvincente come un thriller e non offre risposte facili o ricette pronte a nessuno. Locke è un uomo consapevole del proprio passato che decide di fare la cosa giusta anche se questo significa disintegrare la sua vita. Ma lo fa perché è consapevole che altrimenti la disintegrazione riguarderebbe la sua anima obbligandolo a vivere un nuovo universo di menzogne e opportunismo, non meno distruttivo e sicuramente più orrendo di ciò a cui sta (stiamo) andando incontro.