Di Rocco

Il primo Ministro inglese, Boris Johnson, negli ultimi giorni ha ufficializzato le sue dimissioni dalla guida del Partito Conservatore britannico.

Questa vicenda ripropone il tema dei rapporti tra leader e partiti politici di appartenenza. Nelle moderne democrazie sta infatti accadendo un fatto nuovo: il partito, luogo nel quale tradizionalmente inizia la carriera di un uomo politico, improvvisamente diventa un ostacolo quando quello stesso diventa un leader.

LA CRISI DEI CORPI INTERMEDI

In realtà le vicende inglesi ripropongono con forza la crisi dei corpi intermedi tra eletti ed elettori, che alcuni attenti osservatori hanno ben descritto con la parola “disintermediazione”.

Questa parola può dirsi legata alla crisi della democrazia rappresentativa, tanto che il voto del singolo elettore sostanzialmente sembra aver perso di significato, perché non riesce più ad incidere, poiché le decisioni si prendono in luoghi lontani dalle assemblee rappresentative.

È innegabile che questa crisi sia stata sicuramente accentuata anche da una Unione Europea che troppe volte è stata più attenta alle problematiche relative all’equilibrio di bilancio trascurando le reali e concrete problematiche dei cittadini dell’Unione.

IL RUOLO DEI SOCIAL

La crisi dei corpi intermedi e la globalizzazione introducono dunque un concetto nuovo, secondo cui il leader per incrementare il suo personale consenso deve rivolgersi direttamente al suo elettorato, che a propria volta diventa il suo popolo e si collega con il Capo tramite un rapporto quotidiano alimentato dai social. Infatti, In tempi moderni, è impensabile che qualsiasi persona che aspiri a ricoprire cariche politiche possa risparmiarsi dall’utilizzo dei social, che ormai sono lo strumento principale della propaganda. Basti pensare alla “bestia” salviniana, che ha costruito un vero e proprio personaggio, o all’ascesa dei 5 stelle, avvenuta per la maggior parte grazie alle campagne e ai blog su internet. Dunque, si sta assistendo, sotto questo punto di vista, a un’autentica rivoluzione del modo di fare politica, che però ha portato, allo stesso tempo, ad un abbrutimento della stessa. L’elettore, nella maggior parte dei casi, è trattato alla stregua di un consumatore, e la comunicazione, sotto forma di slogan, è finalizzata unicamente a suscitare forti stati emozionali, quali scalpore, compassione o, peggio, indignazione.

I DIVERSI POPULISMI

 Di norma, è fattuale che il popolo abbia bisogno di una figura forte, autorevole, che dia sicurezza, soprattutto perché troppo spesso la ricerca continui di equilibri e mediazioni rallenta la capacità decisionale. Decisioni che, come detto prima, sono prese in luoghi estranei ai cittadini, che non si sentono più rappresentati.

L’idea che, dunque, il leader debba fare breccia direttamente sui singoli elettori scavalcando il partito porta inevitabilmente all’affermazione di diversi populismi, alcuni dei quali, come spiega il sociologo Gerald Bronner, si basano sull’avversione per i ricchi e i potenti, altri ancora di un’immagine semplicistica di uguaglianza. Insomma nella democrazia dei creduloni ce n’è per tutti i gusti elettorali, per tutte le declinazioni carismatiche.

I PARTITI COME STRUTTURE OBSOLETE

È evidente che in questo schema la struttura-partito appare come un orpello novecentesco, un taxi su cui è utile salire per la prima parte della corsa, ma che poi diventa intralcio burocratico: gregge, appunto come dice Boris Johnson. Persino il Segretario del Pd, Enrico Letta, alle ultime elezioni suppletive nel collegio di Siena, ha concorso senza alcun simbolo.

Ne consegue che il ruolo dei partiti tradizionali è stato totalmente stravolto rispetto al passato, che rappresentavano il sopracitato corpo intermedio tra rappresentanza e cittadinanza, e in cui era diffusa consuetudine avere la tessera di un partito e svolgere attività politiche per esso, che a sua volta aveva il compito di formare la futura classe dirigente che rappresentava gli eletti.

POST DEMOCRAZIA

Possiamo dunque dire che siamo nella fase di una post democrazia, nella quale leader e partito di appartenenza appaiono essere due concetti che entrano tra di loro in contrasto? Visto quanto detto fino ad ora sembrerebbe proprio di sì. A prova di ciò, in questi anni, nello scenario politico italiano e internazionale, l’unico partito che il leader è disposto ad accettare è quello che porta il suo nome. Lo scenario dominante risulta essere quello di partiti personalistici che non esprimono alcuna ideologia politica, ma la visione personale del proprio leader, come Trump negli USA, fino ad arrivare alla Lega-Salvini Premier, Azione di Calenda, Italia Viva di Matteo Renzi in Italia.