Di Michele
Quella di Henri de Man sembra una vita fatta per mettere in dubbio dogmi e preconcetti. Una parabola sicuramente fuori dal comune, ma che racconta meglio di altre la storia di quel secolo breve che fu il primo novecento. Una vicenda umana e politica che rivive attraverso A cose fatte, autobiografia intellettuale uscita nel 1941, quando de Man aveva cinquantacinque anni, e ripubblicata in italiano quest’anno da Altaforte Edizioni con un prezioso saggio introduttivo di Corrado Soldato.
Henri de Man fu uno dei principali animatori del movimento operaio belga. Aderì fin da giovanissimo al Partito operaio belga (Pob), per poi arrivare ad una graduale revisione del socialismo e del marxismo. Da questa revisione verranno fuori opere intellettuali di grande valore, come i saggi Il superamento del marxismo e L’idea socialista, ma soprattutto l’elaborazione del Piano di lavoro e del cosiddetto planismo, ovvero una sorta di socialismo nazionale che per gli avversari di de Man non era che “un fascismo appena camuffato”. Con la seconda guerra mondiale e l’invasione del Belgio da parte nazista, de Man scelse di collaborare con i tedeschi seguendo peraltro l’esempio del re Leopoldo III.
Il cammino di de Man potrebbe sembrare a prima vista paradossale, se non addirittura un tradimento. Tuttavia il suo non è un caso isolato, basti pensare a Marcel Déat e Jacques Doriot, o ancora prima a Sorel o allo stesso Mussolini. Con orgoglio de Man poteva affermare di tenere “al socialismo nel 1941 tanto quanto lo avevo a cuore nel 1902”, anno in cui erano entrato bella Jeune garde socialista di Anversa.
Per de Man ripensare il socialismo e superare il marxismo è innanzitutto un modo per salvare il socialismo stesso, renderlo adatto ai tempi e staccarsi dai dogmi e dall’immobilismo di un movimento operaio che sembrava essersi esaurito. Punto di snodo fondamentale è la Prima guerra mondiale: “Per me più che per chiunque altro, l’agosto del 1914 significò un crollo totale. La mia fede marxista, la mia fede internazionalista, la mia fede antimilitarista, erano messa alla berlina dagli eventi”.
La Grande guerra significò la fine della II Internazionale, i valori della nazione avevano sopravanzato quelli della lotta di classe. Già a inizio secolo de Man aveva maturato un’attenzione al nazionalismo: “Poiché all’epoca [1905] ero già persuaso che i progressi del socialismo e il risveglio delle nazionalità andassero di pari passo, vedevo con angoscia le crepe che apparivano nell’edificio marxista e la crescente difficoltà del marxismo ad accordare la teoria con i fatti”. Nonostante de Man abbia avuto la lucidità di anticipare questi temi, la Prima guerra mondiale rappresentò un punto di rottura ineludibile. Lo stesso de Man prestò servizio nel conflitto come ufficiale di artiglieria, facendo parte a tutti gli effetti della “generazione del fronte”, come ricorderà successivamente a Mussolini nel carteggio fra i due.
La guerra non sconfessò il marxismo solo da un punto di vista politico. Anzi, rappresentava l’irrompere della vita al suo parossismo che evidenziava quanto il marxismo fosse una dottrina astratta e ormai svuotata di senso. La scelta rompere con il marxismo acquistava così una dimensione più profonda e – come spiega lo stesso de Man – “era dovuta al fatto che aggredivo non l’uno o l’altro dei rami disseccati della dottrina, bensì le radici stesse del marxismo, ossia le sue basi filosofiche: il determinismo economico e il razionalismo scientista”.
Questa frattura si amplia con la crisi economica degli anni trenta, a cui i vertici del Pob sono del tutto impreparati. All’idea della lotta di classe fra capitale e proletariato, de Man sostituisce quella della lotta fra un muro del denaro ed un fronte del lavoro: “In luogo della lotta di classe tra capitalisti e operai, il fronte comune di tutti i ceti sociali produttivi contro le potenze parassitarie del denaro”. Per muro del denaro bisogna intendere “il monopolio privato del credito, che subordina l’attività economica alla ricerca del profitto privato, invece di perseguire la soddisfazione dei bisogni collettivi”. Cosa a cui de Man tenta di rispondere con la “nazionalizzazione del credito, quale strumento principale di un’economia diretta all’incremento del potere d’acquisto delle masse popolari, al fine di garantire a tutti un lavoro utile e remunerativo e di accrescere il benessere generale”.
Tutto questo porta de Man a pensare un’economia mista che preveda un forte dirigismo statale e che possa premiare le forze produttive della nazione. Per fare ciò, de Man darà vita ad un documento programmatico denominato Piano del lavoro, che rappresenta probabilmente uno dei risultati politici più alti di de Man. Agli avversari di de Man non sfugge che per un effettivamente attuazione del Piano servirebbe un rafforzamento dello Stato: “Quello che ci proponete non è che un fascismo appena camuffato. Renderete lo Stato onnipotente, e non potrete attuare il vostro programma se non instaurando una dittatura”. Cosa di cui si avvede anche de Man nella sua esperienza di governo, quando si rafforza in lui l’idea della debolezza del vecchio sistema parlamentare e borghese.
Ridurre A cose fatte alla sua elaborazione culturale e politica sarebbe fargli un torto. Quello di de Man non è un testo di arida dottrina, nonostante il contributo intellettuale sia di primo piano. È il racconto di una fede ardente, vissuta con pienezza. Dall’attivismo febbrile, alle battaglie parlamentare, dai volantinaggi in paesini sperduti a cattedre in università prestigiose, dalle trincee della prima guerra mondiale a comunità di reietti in giro per il mondo. Quella di de Man è una testimonianza interessantissima, a volte paradossale, spesso sorprendente, che comincia con il disgusto di bambino contro un mondo in decadenza: “In verità, iniziai con l’opporre alla prosaicità del presente un passato migliore, prima di curarmi dell’avvenire; e avvertii la forza ribelle della tradizione prima di conoscere quella sovversiva della rivoluzione”.
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