Di Michele

«Laissez-moi le courage à défaut d’autre bien», lasciatemi il coraggio, non ho più nulla. Così scriveva Robert Brasillach, nei Poemi di Fresnes, dal nome del carcere dove venne imprigionato in attesa della condanna a morte. È un verso del VI Salmo, è il primo febbraio del 1945. Il 6 febbraio verrà fucilato. L’accusa com’è noto era quella di collaborazionismo con l’occupante tedesco, ma Brasillach non era altro che un intellettuale, un giornalista. La sua è una colpa solamente ideale. Se c’è una frase che può descrivere la tragedia e la compostezza di quella generazione, che può incarnare quell’eroismo vissuto con la gioia e la fugacità della giovinezza, è probabilmente questa.

È una frase che s’addice anche a Christian de La Mazière e al suo Il sognatore con l’elmetto, libro in cui raccontò la sua esperienza nella Divisione SS “Charlemagne” poco più che ventenne. Un libro che all’uscita in Francia nel 1972 divenne un vero e proprio caso letterario ed un grandissimo successo di vendite, ma che costò caro al suo autore provocandogli una ostracizzazione da parte dell’opinione pubblica. È strano quanto volte si debba pagare per la stessa colpa.

Il sognatore con l’elmetto è stato finalmente reso disponibile al pubblico italiano quest’anno, a cinquant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, grazie all’ottimo lavoro di Andrea Lombardi e Italia Storica. Un libro capace di sorprendere chiunque, quasi un romanzo di formazione in cui ad essere protagonista è la giovinezza con i suoi slanci, la sua bellezza, la sua audacia e la sua invincibile primavera.

Non c’è spazio per rimorsi o sensi di colpa, non c’è quella volontà di autoflagellarsi o prendere le distanze dal proprio passato che qualche gendarme della memoria avrà sicuramente preteso da de La Mazière. Al massimo, c’è il distacco di un uomo che guarda al sé stesso di vent’anni, alle proprie avventure, a quell’incredibile vicinanza col pericolo che solo alla gioventù è permessa.

Non c’è nemmeno il posto per toni apocalittici, per le tinte fosche di un crepuscolo degli dei. Emerge, invece, uno sguardo sornione e ironico tipicamente francese, impastato di disinvoltura e leggerezza. Quello stesso spirito che fa dire «creperemo, certo, ma facciamolo con eleganza». Questo nonostante il fatto che le pagine del libro siano costellate di episodi tragici e prove durissime, al limite della sopportazione umana.

Altro elemento che potrebbe spiazzare il lettore, il libro si apre con de La Mazière a cui viene promesso un ruolo comodo e in fin dei conti accettabile nella resistenza francese. Un modo per lavarsi la coscienza ora che tutto appare perduto. De La Mazière è un giovane giornalista del modesto Le Pays libre, organo del Parti Français Nazional-Communiste di Pierre Clémenti e vicino agli ambienti della Collaborazione.

De La Mazière sceglie invece la strada più difficile, con quella inconsapevolezza che è allo stesso tempo destino, così tipica della gioventù. Giusto qualche tempo prima un giovane operaio gli aveva confessato di essersi arruolato nelle Waffen-SS “leggendo i suoi articoli”. Come poteva allora essere da meno? «Dopo aver seguito le mie convinzioni, le aveva superate. Ero legato alla sua scelta. Se non volevo, un giorno, vivere nel rimorso e nella vergogna, dovevo raggiungere il suo esempio. E sentii, improvvisamente, che in me tutto era deciso». Se arruolarsi nelle SS diventa così un atto di coerenza e di fedeltà di fronte a sé stesso, c’è anche qualcosa del tradimento o meglio della rivoluzione.

Infatti, de La Mazière sente di venir meno agli insegnamenti del padre, ufficiale di cavalleria ma di un patriottismo vecchio stampo. Per de La Mazière padre, quella tedesca era ancora l’uniforme del nemico, delle tante guerre combattute tra Francia e Germania, mentre per il figlio le Waffen-SS vengono a rappresentare il sogno di una rivoluzione europea. Una tensione di cui scrisse anche Adriano Romualdi: nel momento stesso in cui consideriamo le contraddizioni dei vecchi patriottismi, sentiamo la validità dell’idea nazionale come sintesi dei valori di sangue e tradizione contro le correnti livellatrici d’un mondo bastardo. E la necessità di salvare il nazionalismo, trasferendolo dal piano degli antichi patriottismi a quello d’un grande nazionalismo della nazione-Europa, ci sembra, più che mai, la necessità dell’ora». Questo respiro allo stesso tempo europeo e spirituale è ciò che muove de La Mazière e lo conduce nella Divisione “Charlemagne”.

Questa nuova visione dell’Europa non sembra nemmeno fare in tempo a nascere che viene già abbattuta, come de La Mazière non fa in tempo a vivere la guerra che è già la sconfitta. Schierato sul fronte orientale, arriva in una situazione già compromessa, fra difese disperate e azioni dietro le linee, non sembra nemmeno più un esercito: «stavamo per vivere e marciare nei boschi, come i banditi di una volta». Veri e propri Waldgänger. Finirà proscritto anche dopo la guerra, con le ipocrisie e le falsità della prigionia. Ma alla fine di tutto, tra l’amarezza e la delusione della sconfitta, rimane quella sobria eleganza, quella fedeltà ad uno stile che fa dire: «non sarò mai uno di quegli esseri amari che disilludono dalla loro fede i giovani di vent’anni».