di Michele
Partiamo da un presupposto: Don Chisciotte è una merda.
Non il libro, non quel capolavoro de L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia (Ingenìoso Hidalgo Don Quijote de la Mancha), ma proprio lui, quel vecchio cencioso di Chisciana che si autoproclamò senza alcun titolo Don Chisciotte, appunto il personaggio. Il Cavaliere dalla Triste Figura, come anche volle chiamarsi, non è un eroe né un antieroe, ma si trascina comicamente per le pagine del libro. Così viene da ridere di lui, però con quella malinconia che a un certo punto soffoca il riso col pianto. In effetti, è una gran tristezza pensare che quella sua foga cavalleresca si trovi a vivere in un’epoca in cui la cavalleria è morta. Si vorrebbe sognare un po’ con lui, ma si rischia di precipitare alla sua stessa maniera.
Se vi siete innamorati di questa specie di Fantozzi del ‘600, se pensate sia il primo degli ultimi romantici, se vi emozionate come fosse la canzone della vita quando Guccini suona il suo Don Chisciotte, se prendete come una buona cosa l’andare contro i mulini al vento, quello che leggerete non vi piacerà.
Facciamo un giro largo e andiamo da quel cantore epico e fegataccio da trincea che fu Ernst Jünger. In un saggio fondamentale come L’operaio, si sofferma in alcune brevi pagine – che al lettore più distratto potrebbero sfuggire – sul senso del romanticismo, inteso come “posizione difensiva” propria del borghese. Qui il borghese deve essere interpretato come quella figura che, dalla modernità in poi, ha portato alla decadenza del vecchio ordine tradizionale e ad una diminuzione della vita, è “quegli che tutto rimpicciolisce” al pari dell’ultimo uomo nietzscheano. Nella sua chiusura verso il pericolo è incapace di un contatto con l’elementare, quindi con l’essere.
Questa inautenticità del borghese è la stessa dello spazio romantico, il quale “non possiede un suo proprio centro” e per questo “consiste unicamente in una proiezione”. Ciò è vero anche da un punto di vista temporale e presuppone sempre una lontananza: “la condizione dello spazio romantico si configura come tempo passato; propriamente come un tempo passato che si colora del sentimento di reazione (risentimento) contro lo stato di cose che ad ogni istante si attualizza”. Allo stesso modo, tale lontananza è anche lontananza dal luogo presente, configurandosi come fuga ed esotismo. Tutto ciò vale come un’illusione, un perdersi in facili sentimentalismi e nelle nebbie dell’autoinganno, in altre parole nella resa.
Ecco, nel senso descritto da Jünger, Don Chisciotte è perfettamente romantico. La sua è una fuga dal tempo presente, dalla monotonia della sua pochezza, che però non produce una vera rivolta. Le avventure di Don Chisciotte sono un miraggio nel deserto, le quali non a caso finiscono in una doppia prigionia: quella mentale della sua follia e quella fisica del povero galantuomo ridotto in catene per essere riportato a casa. Quella di Don Chisciotte è una sorta di narcosi che comincia dalla finzione dei libri che legge in abbondanza e che crede siano fatti compiuti. Non è diverso da quelli che scambiano mondi virtuali con la realtà, nonostante il mezzo librario possa sembrarci più accettabile rispetto ad un RPG online o alla finzione dei social.
Ma c’è qualcosa di peggio rispetto a questo velleitarismo. Don Chisciotte pretende di far rivivere la cavalleria, facendolo la tradisce. È emblema del peggior tradizionalismo, che infatti è antitradizionale. Se gli esiti sono tragicomici è perché l’intenzione è infondata, negromantica addirittura. Non c’è origine da riattualizzare, quanto una vaga lontananza sentimentale. A dei poveri caprai che si risparmierebbero volentieri quell’orazione, Don Chisciotte racconta dell’età dell’oro, “venturosa età” in cui “ignorate erano allora dai viventi queste due parole: tuo e mio”. Con l’andare dei tempi venne “l’insidiosa malizia” che minacciava le fanciulle e l’onestà, “fu appunto per loro sicurtà istituti l’ordine dei cavalieri erranti”.
L’appartenenza di Don Chisciotte viene sancita per investitura, cioè iniziazione. Poiché non c’è nessun Signore che lo armi cavaliere, si accontenta di un oste truffaldino, della sua locanda come castello, e di due baldracche elette a dame per l’occasione. L’assenza del sacro è rappresentata dalla mancanza di una chiesa e della veglia. L’oste, pur di levarselo di torno, lo raggira dicendogli che “in quel castello non c’era cappella, ma che per quanto rimaneva da fare non era necessaria, perché la sostanza della cerimonia […] si poteva fare anche in mezzo a un campo”. In questo modo si rovesciano non solo le intenzioni di nobiltà e onestà di Don Chisciotte, ma – in termini simbolici – anche delle prime due funzioni tradizionali (sacrale e guerriera) con quella economica.
L’episodio forse più infausto di quel raddrizzatore di torti che pretenderebbe essere Don Chisciotte è la liberazione di alcuni prigionieri, che infatti gli daranno il bel servito derubandolo dei suoi averi. Ma le ingenuità, le piccole o grandi viltà, le giustificazioni e gli egoismi di Don Chisciotte costellano tutto il romanzo, dandogli quel tono trono di tragedia farsesca.
L’ideale cavalleresco di Don Chisciotte diventa un altrove, un auto-assolvimento per i propri fallimenti. Il rifiuto della realtà e la conseguente follia di Don Chisciotte non sono altro che la sua incapacità di affrontare ciò che lo circonda. Anzi, il suo voler essere cavaliere è un oggetto di consumo, è felicità omologante. Non c’è sacrificio, ma appiattimento a sogni altrui. Se la bassezza dei tempi a cui gli è dato vivere ci fa forse empatizzare con lui, non ne possiamo condividere la sostanza.
Questa paradossalità di Don Chisciotte è la stessa di certo tradizionalismo. Come ricorda Dugin, citando Sedwick: “Tra i primi convertiti all’Islam in Europa troviamo una donna, una certa Isabelle Eberhardt (il cui padre, Alexander Trofimovsky, era russo). Fu iniziata a due ordini sufi – Qādiryya e Rahmaniya – da Lalla Zaynab bint Shaykh Muhammed ibn Abi al-Qasim, moglie di uno sceicco algerino. Dalla Svizzera, dov’era stata cresciuta, si trasferì in Algeria. Beveva come una forsennata, fumava hashish, portava abiti maschili e andava a letto con chiunque le capitasse a tiro – abitudini che non abbandonò nemmeno dopo la conversione all’Islam e l’iniziazione al Sufismo. Morì, appena ventisettenne, nel corso di un’alluvione, dopo aver perso tutti i denti, malata di malaria e, forse, di sifilide. Ciò accade agli inizi del Sufismo europeo – dunque, dello stesso tradizionalismo”.
In maniera piuttosto discutibile, da storie come questaDugin deduce che “il tradizionalismo è più interessante e importante della Tradizione”. L’ambiguità del tradizionalismo, il suo aspetto post-moderno e nichilistico rappresenterebbero dei punti di forza, un modo di affacciarsi al futuro con maggior vigore. Vi è, però, che l’adesione ad un principio superiore diventi qualcosa di individualistico e sentimentale. Lontano da rappresentare quella via eroica di accesso alla Tradizione, quello stesso principio diventa lo spettro delle fantasie e delle speranze dell’io, o peggio la malandata armatura dove nascondere i propri fallimenti.
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