di Enrico

Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”. Con questa frase, generalmente attribuita a Massimo d’Azeglio, si commentava l’Italia unita del 1861. Già allora serpeggiava l’idea che gli Italiani fossero un popolo diviso, in cui era molto più importante l’appartenenza locale, come una sorta di campanilismo, piuttosto che un’idea così “astratta” come l’Unità d’Italia e che il Risorgimento sia stato opera di un piccolo gruppo di aristocratici snob e intellettuali idealisti. I primi a sostenere questa idea malsana erano, naturalmente, gli Austriaci e i loro giornali. In tempi più recenti i fautori della medesima idea occupano una fetta, tutto sommato consistente, dell’opinione pubblica nazionale.

Ora, se da un lato è verissimo che subito dopo il Risorgimento ci sono state fortissime tensioni sociali tra nord, centro e sud (sia a causa delle differenze linguistico-dialettali, sia a causa della delusione delle aspettative che molti si erano fatti su come avrebbe dovuto essere il nuovo stato italiano), dall’altro è totalmente fuori discussione che il Risorgimento sia stato un atto di popolo, nazionale e rivoluzionario. Per dimostrare ciò basterebbe pensare alle strade di Milano piene di cadaveri, all’indomani delle Cinque Giornate, o all’esercito che ha combattuto nel ’48 per liberare il Lombardo-Veneto dagli Austriaci, il quale era composto, oltre che dall’esercito regolare del Regno di Sardegna, da una marea di volontari venuti da tutta Italia; una menzione in particolare spetta di diritto alla divisione volontaria toscana e, in particolare, al battaglione degli studenti universitari di Pisa, che nella battaglia di Curtatone e Montanara si fecero massacrare fino all’ultimo uomo, pur di non cedere terreno alle truppe del maresciallo Radetzky che incalzavano.

Detto tutto questo però, a dispetto di tutti i fautori della propaganda antinazionale, l’Italia era portatrice di una Civiltà comune ben prima del 1861. Essa era già unita da quasi mille anni, anche se non dal punto di vista politico e la consapevolezza di appartenere ad una stessa Civiltà, con una storia e dei simboli comuni, esiste in Italia da tempo immemore; una storia che affonda le proprie radici nella Civiltà per eccellenza: Roma.

Naturalmente si potrebbe obiettare che non ci sia alcun nesso apparente tra la storia di Roma e la lingua e la cultura italiana. Ma questa connessione, oltre ad essere tangibile, ha un intermediario, Dante Alighieri, definito infatti “l’ultimo dei Romani e il primo degli Italiani”.

Al netto di tutto ciò, era dunque davvero necessario “fare gli italiani”, come sosteneva Massimo d’Azeglio?

Evidentemente no; la nostra lingua e la nostra identità nascono molto prima della reale unificazione. Anche se non si può dire, ovviamente, che la lingua e la civiltà italiane nascano “di punto in bianco” con l’opera di Dante; la Divina Commedia, per quanto importante sia stata nel processo di unificazione linguistica e culturale, altro non è che la “trasposizione in versi” di un sentimento già diffuso da tempo in questa meravigliosa terra, come un fuoco che cova per lungo tempo sotto la cenere e ad un tratto divampa con inarrestabile forza.

Per capire meglio come questo sentimento profondo già esistesse e fosse ben radicato tra le genti d’Italia, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, rispetto all’epoca di Dante, fino al 1176.

In quell’anno, il 29 maggio, le forze congiunte di vari comuni italiani ottennero a Legnano una straordinaria vittoria sulle armate imperiali di Federico I Barbarossa, scacciandole dall’Italia del centro-nord. E dopo aver conseguito questa immensa vittoria contro i “tiranni tedeschi”, come li chiamavano allora, i rappresentanti dei comuni che avevano scacciato l’esercito imperiale, scrissero una lettera aperta al Papa (il quale, naturalmente, era ben contento che un esercito riunito sotto il segno della croce avesse inflitto un tale colpo all’Impero) nella quale dissero: “E vogliamo condividere questa vittoria con il Signor Papa e con tutti gli Italiani”. Ecco, questo riferimento a tutti gli Italiani nella lettera per informare il Papa della vittoria è forse la più schiacciante prova dell’esistenza tra gli Italiani (politicamente ancora divisi) di quel sentimento di spirito nazionale di cui parlavamo prima.

Ma questa unità non poteva essere solo ideale, doveva essere concretizzata. E questa missione fu portata a termine, molti anni dopo, dal già citato Dante Alighieri. Il quale da Roma aveva appreso una lezione importantissima; non c’è collante come la lingua per unire popoli apparentemente divisi. Così era stato il latino per l’Impero Romano, così sarebbe stato l’italiano per la Nazione italiana. Questa importanza dell’unità, sotto tutti i punti di vista, fu molto ben compresa da un altro dei padri nobili della nostra letteratura: Alessandro Manzoni.

Il letterato milanese, nella sua incompiuta canzone “Il Proclama di Rimini” (ispirata all’omonimo proclama di Gioacchino Murat del 30 marzo 1815, in cui il Re di Napoli e cognato di Napoleone Bonaparte esortava le genti d’Italia ad unirsi contro gli Austriaci che stavano riprendendo possesso del Lombardo- Veneto) scrisse infatti: “Liberi non sarem, se non siam uni”.

E questa unità fu raggiunta sul piano linguistico prima, con l’immensa opera di Dante Alighieri, e sul piano politico dopo, con i moti che partono dall’Età Napoleonica e si realizzano pienamente nel Risorgimento.

La nostra lingua, dunque, non è soltanto un idioma diffuso unicamente per la necessità di capirsi tra membri di una stessa nazione, ma è trasposizione (scritta e orale) di quel sentimento di spirito nazionale cantato da Dante nella Commedia. La nostra lingua non è solo, come molti pensano, “bella da ascoltare”, ma porta con sé una missione civilizzatrice di rara potenza, capace di riunire le genti sotto il nome d’Italia, ritenuta per molto tempo solo “una mera espressione geografica”, come disse con tono di disprezzo l’allora cancelliere austriaco Klemens Von Metternich.

Per concludere potremmo quindi dire, modificando la frase di Massimo d’Azeglio, che “la Civiltà ha fatto la lingua italiana e la lingua italiana ha fatto l’Italia”.