Di Sergio
Non si può stroncare una canzone solo perché non è all’altezza delle precedenti. Soprattutto se le precedenti sono contenute in album cult del Rock come The Wall, The Dark Side of the Moon o Wish you were here. È lapalissiano. Dopo certi album è difficile tornare indietro, anche se la produzione dei Pink Floyd non può essere ridotta soltanto a questa trilogia sacra, dato che prima di questi c’è qualcosa come Meddle e in mezzo qualcosa come Animals. È difficile fare di meglio, ma non per questo non esiste altro. Come dire che Leonardo Da Vinci è soltanto la Monnalisa: si ok, e il resto dove lo metti? Avranno pensato lo stesso i grandi critici quando sentirono le prime note rock, bello ma vuoi mettere Vivaldi? In ogni caso la nuova canzone del gruppo rock britannico non è certo un capolavoro come Echoes o Time, ma meriterebbe di più dello scherno o della semplice critica strappa like. Soprattutto perché ogni tre per due stiamo a lamentarci della musica spazzatura, dei trap-boy e del festival di Sanremo. Il fatto che i Pink Floyd abbiano rilasciato un nuovo singolo dopo ventotto anni è già di per sé una notizia: che si abbia nel 2022 l’occasione di sentire di nuovo all’opera la chitarra di Gilmour e la batteria di Mason dovrebbe rinfrancare lo spirito, ma se non dovesse bastare questo a strapparci dall’immondizia musicale che ci circonda, andrebbe letto più attentamente il testo che il gruppo – menomato della presenza di Roger Waters già dal 1985 e dalla prematura morte di Richard Wright nel 2008 – ci riesce a proporre.
Quante volte stiamo a piagnucolare perché la musica più ascoltata dalle nuove generazioni è quella che parla di criminalità, divertimento facile e soldi da buttare? Quante volte pontifichiamo sui cattivi esempi che i ragazzi ricevono dalle reti mainstream? Quante volte ci lasciamo andare a commenti reazionari sulle “nuove generazioni”? La risposta è spesso. Ma se proprio non possiamo fare a meno di dividere il mondo in buoni e cattivi, dovremmo almeno saper ascoltare ciò che ci arriva alle orecchie. Hey hey, rise up! già dal titolo dovrebbe farci drizzare le antenne, soprattutto ora che siamo imbottiti di tormentoni mainstream alla don’t look up, il film campione di incassi di Netflix. Una propaganda martellante che solo chi vive ancora le scuole e le università riesce a comprendere, che spinge tutti quanti ad appiattirsi, adeguarsi, conformarsi all’altro, che proprio in relazione all’uguale diviene nulla. Rise up è già un imperativo che richiama alla presenza e ad alzarsi ora che siamo seduti su un divano a commentare, soprattutto perché la canzone è dedicata alla guerra in Ucraina.
Una posizione questa che ovviamente ha fatto fioccare critiche da una parte e dall’altra, sia da pro-russi che da filo-ucraini. Tutti parlano, ma nessuno deve aver ascoltato le parole cantate dalla voce di Andriy Khlyvnyuk, cantante ucraino dei BoomBox che ha interrotto il suo tour americano per tornare a Kiev. Non sarà il grido profondo di Clare Torry di The Great Gig in the sky ma è comunque una voce che parla di morte. Il gruppo ha raccontato che nel 1973 la cantante fece una mezza dozzina di registrazioni per le quali l’unica indicazione fu: There’s not lyrics. It’s about dying (Non ci sono parole, riguarda la morte). Quando uscì dalla sala registrazione degli Abbey Road Studios lei si scusò imbarazzata per la performance, convinta che non avrebbero mai usato la sua voce per l’album… La voce del cantante ucraino ci parla dello stesso sentimento, attraverso le parole di una ballata folk tutt’altro che buonista e politicamente corretta. Non è Imagine, non è un gessetto colorato sulle piazze insanguinate di Parigi, ma un grido di battaglia dello stesso Andriy che non ha seguito da vicino la registrazione perché ferito dalle schegge di un proiettile.
La canzone popolare di cui parlo è The red viburnum in the Meadow, canzone nata in Ucraina durante la Prima Guerra Mondiale, composta da Stepan Charnetskii nel 1914. Non parla di un mondo senza patrie e senza frontiere, ma del fiore rosso del Viburno, la kalyna che cresce nelle pianure ucraine e che appare anche nella celebre canzone Kalinka.
Oh, in the meadow a red kalyna has bent down low / For some reason, our glorious Ukraine is in sorrow / And we’ll take that red kalyna and we will raise it up.
Non proprio un inno di arrendevolezza, ma a raccogliere il proprio coraggio come si farebbe di un fiore, in questo caso un fiore simbolo della Patria. Non proprio quelle parole di pigrizia e rassegnazione che invece ascoltiamo costantemente dalla musica italiana e non. Allora perché bocciare una canzone in tronco? Solo perché ci parla di uomini che non vogliono lasciar sfiorire la propria terra? Da quando la critica d’area si è dissociata dalle parole di coraggio? Per altro un’area la nostra che è ricca di “innesti” dalla musica popolare, da Avanti ragazzi di Buda a Piccolo Attila, mutuata nel 1980 dalla canzone The Foggy Dew, ballata popolare irlandese che parla della Rivolta di Pasqua del 1916, fino al Mercenario di Lucera cantata dalla Compagnia dell’Anello fino ai Sottofasciasemplice. Red Kalyna parla di coraggio, ma soprattutto parla di vincitori che si sono ritrovati sconfitti. Infatti, il brano parla della Legione Sich, una divisione fondata nel 1911 da giovanissimi galiziani (allora sotto l’Impero Austro-Ungarico) che si distinsero per ardimento e coraggio sul fronte orientale, proprio contro i russi a cui inflissero pesanti sconfitte, fino al dissolvimento del fronte e al dissolvimento stesso degli Imperi. Una canzone che letta attentamente ci parla di grano primaverile come solchi dorati, di coraggiosi fucilieri che liberano i fratelli dalle catene, di brindisi alla gloria e di venti tempestosi che soffiano dalla steppa…
No, non è una bella canzone. È una canzone di guerra, a cui un attento giudizio politico darebbe più importanza di una bocciatura senza appello. Come a suo tempo fu fatto dai nostri nemici, riusciti a rendere commerciale e martellante una canzone come Bella Ciao (sic!). Tutto sta nell’arrangiarsi perché non tutto l’oro ci arriva sulle note che già conosciamo. Siamo noi a dover captare e saper ri-arrangiare qualcosa che è portato dal vento e che suona bene alle nostre orecchie. A patto ovviamente di saper prima ascoltare.
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