di Sergio
L’università italiana non se la passa bene. Ha visto sicuramente tempi migliori, ma la notizia non è nemmeno troppo nuova. Questa notte la facoltà di lettere della Sapienza a Roma è stata occupata dai collettivi di sinistra, tra i quali spiccano – udite udite – lo spazio transfemminista “Nemesi” e “Fuori luogo”. È questo il problema dell’università italiana? Assolutamente no. Non proprio almeno. Ma c’entra perché dalle parole degli studenti che nella notte hanno deciso di occupare il plesso di piazzale Aldo Moro possiamo trarre una somma della vera e propria desertificazione che sta dilagando negli atenei di tutta Italia. “Siamo solidali – dichiarano gli occupanti – con i portuali di Genova in lotta, che per domani, giovedì primo aprile, hanno chiamato uno sciopero per denunciare la criminale complicità dell’Italia nel traffico internazionale di armi. Sono anni che le proteste vanno avanti per denunciare l’invio di armi in Yemen e in tutti i contesti di guerra insabbiati dall’Occidente, e dimenticati dai media mainstream”. Fin qui ci siamo. Non saremo certo noi a denigrare un’occupazione. Piuttosto indicative però le parole della Federazione romana del FGC (Fronte della Gioventù Comunista). Hanno dichiarato infatti, oltre alla sua contrarietà alla guerra in Ucraina, che “per costruire un futuro che non sia incerto dobbiamo partire disertando questo presente”. “Disertare” e “sabotare” insomma, nella loro migliore tradizione, ma c’è di più in queste parole che meritano anche la nostra attenzione. Perché? Sono l’eco di un sistema universitario che sta disertando il suo ruolo in favore della rinuncia o della ben più pericolosa privatizzazione dell’istruzione.
Infatti, mentre il richiamo della guerra in Ucraina si fa spazio negli atenei, a farsi largo ci sono anche statistiche poco incoraggianti, come quelle che riguardano le immatricolazioni. Se una battaglia deve essere combattuta nelle Università dagli studenti, dovrebbe essere proprio quella per un diritto basilare come quello allo studio. Parlano i numeri: crollo delle immatricolazioni nell’anno accademico 2021/2022 con una contrazione del 5,2% rispetto al precedente. Circa 17.000 studenti in meno secondo lo studio dell’Osservatorio Talent Venture. Tra gli atenei di medie dimensioni (tra i 2.500 e i 10 mila immatricolati) l’università di Salerno presenta un -8%. E ancora Napoli Vanvitelli -1%, Napoli Orientale -14%, la Federico II (800 anni di storia) entra in classifica con un meno -2%. Crescono le private: Suor Orsola Benincasa di Napoli con un +6% nelle immatricolazioni e le non statali Bocconi (+2%), Luiss (+5%), Iulm (+8%). In crescita anche le telematiche nel nord-est. Numeri che da soli dovrebbero far rabbrividire, ma che non hanno trovato spazio in nessun dibattito televisivo o istituzionale.
Chi sta uccidendo l’università? Dare la colpa agli studenti o a generazioni numerate a seconda dell’interesse dalla a alla z sarebbe troppo facile. Una presa in giro a noi stessi. Il deserto che avanza non è certo causato da chi adesso si sta affacciando sul mondo universitario. Il Covid e la Quarantena sembrano aver dato il colpo di grazia ad un gigante con le caviglie fragili, sempre meno in grado di reggere la concorrenza con le private, in netto aumento in tutta Italia. “Secondo un recente studio di Neodemos, potrebbe determinarsi una desertificazione di molti atenei, con diverse università del Sud a rischio chiusura entro il 2041 – ha dichiarato Aurelio Tommasetti, già rettore dell’Università di Salerno – DAD e Covid hanno inciso, ma la perdita del capitale umano è riconducibile a più fattori: l’Italia è penultima per numero di giovani laureati e per spesa pubblica in istruzione terziaria. Critico anche il diritto allo studio. Il PNRR deve colmare i ritardi del sistema universitario. I 7 miliardi l’anno di FFO (fondo finanziamento ordinario) devono essere orientati ad una strategia condivisa”.
Cosa dovrebbero fare gli studenti? Sicuramente non disertare, anzi. Il presente è ricco di insidie ma non sarà estraniandosi dal contesto italiano che le disparità verranno cancellate. Dalla battaglia per l’abolizione del numero chiuso alla battaglia per il ritorno in presenza delle lezioni, sono molti i fronti da presidiare contro il dilagare della privatizzazione dell’istruzione. Chiunque tenesse ad un’idea pubblica di educazione e formazione dovrebbe battersi perché gli atenei tornino poli aggregativi fisici e spirituali, non luoghi da spremere per tornaconto personale ed elettorale. È fondamentale, a fronte del presente e del prossimo futuro, recuperare una dimensione comunitaria dell’accademia, bypassando falsi miti di progresso e battaglie d’importazione. Ci permettiamo di correggere il FGC e suggerire un cambio di rotta nel proprio lessico: per costruire un futuro che non sia incerto, lontano da precarietà e terzomondizzazione del lavoro, bisogna partire combattendo per questo presente.
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