Di Sergio
Dovunque saremo, là sarà Roma. L’assemblea si scioglie, gli uomini restano. Con queste parole di Garibaldi, il 30 giugno 1849, il Campidoglio saluta le insegne repubblicane issate dal popolo romano solo cinque mesi prima. È la resa all’esercito francese che da settimane assedia l’urbe: settimane di fame, settimane di baionette e battaglie all’arma bianca. Giorni di sangue che resteranno scolpiti nelle pagine di storia: nonostante lo squilibrio delle forze in campo, la Repubblica Romana regge, resiste e combatte per oltre un mese contando sui volontari giunti da ogni dove. Nessuno si arrende. In quattromila lasciano Roma, il 2 luglio, dopo la capitolazione formale per seguire ancora Garibaldi, ancora una marcia, ancora una volta. Disse loro: Non offro né paga, né quartiere, né provvigioni, non ozi molli; offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte. Acqua e pane quando se ne avrà. Chi ha il nome d’Italia non sulle labbra soltanto ma nel cuore, mi segua. E lo seguirono. Con la colonna di legionari e volontari in marcia verso Venezia, la sorella insorta di quell’anno incendiario, Roma torna allo Stato Pontificio. Il fascio littorio e l’aquila, simboli dell’insurrezione capitolina e della prima irruzione del mito nella storia moderna vengono esiliate. E non torneranno più, nemmeno alla testa dell’Italia unita che vent’anni dopo sbriciolerà a cannonate le mura della città. Si era fatta l’Italia, sì. Ma non la rivoluzione, non quella rivoluzione in cui credevano gli insorti, repubblicani, popolari e giovani poeti che sognarono per Roma e l’Italia il rango di potenza tra le nazioni. Tra giubilo popolare ed inseguimenti rocamboleschi sono molti quelli che la colonna si lascia dietro: Angelo Brunetti e il figlio fucilati dalle truppe austriache, Anita Garibaldi stessa che spira insieme al bambino che portava in grembo tra le acque della laguna veneta. La promessa è quella di tornare: devono farlo, per tutti quelli che si sono lasciati dietro, per tutti quelli che non torneranno più. E quei simboli torneranno: verranno ripresi nelle tempeste d’acciaio della grande guerra per essere gli stemmi di una nuova e terribile aristocrazia del sangue.
Scriverà Dominique Venner: La guerra ha risvegliato in loro la potente idea di rigenerazione morale attraverso la lotta e il sacrificio, formulata a suo tempo da Mazzini. Dal profeta della Giovine Italia hanno infatti ereditato una concezione religiosa della politica e il mito del Risorgimento come «rivoluzione incompiuta». E, istintivamente, credono che spetti a loro compiere questa rivoluzione.
Meritate, e poi avrete. Ammonisce Giuseppe Mazzini dal suo scranno sul colle Aventino con lo sguardo austero fisso sul Palatino. Infatti, lui che della Repubblica Romana fu triumviro e poi esule, fu anche il precursore dei Fasci Italiani di Combattimento. È lui a guidare ed ispirare quella che dal nostro tempo possiamo individuare come prima insurrezione fascista del nostro tempo. Non era un democratico: non nel senso moderno, utilitarista ed individualista, con cui oggi filtriamo tutte le parole. La democrazia mazziniana prevedeva una comunità di eguali e liberi, ma anche di credenti e combattenti. Più simile ad una tavola rotonda che ad un emiciclo parlamentare. Più clan che buon selvaggio. Ogni rivoluzione è l’opera di un principio accettato come argomento di fede. Questa fede altro non era che la fede nella Patria, senza la quale saremmo solo quei bastardi dell’umanità che oggi affollano le strade. È nel 1849 che sui colli romani scorgiamo gli albori dell’idea fascista, non come creatura ex nihilo, ma come risorgiva di uno spirito immortale ed atemporale che ritrova nell’Italia il suo alveo naturale. Patria d’idea, non soltanto di suolo e sangue, perché la patria non è il territorio… la Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore. Qual è questa Idea?
Continua Dominique Venner: La squadra non è solo una truppa d’assalto: è una comunità cementata dalla fede e dalla condivisione del pericolo. Per un nuovo membro, la prima spedizione ha il valore di un rito iniziatico: il neofita deve dimostrare se è degno o meno di indossare la camicia nera. La sua investitura è sancita da un giuramento, secondo un rituale stabilito a Fiume da D’Annunzio. La cerimonia del giuramento ha un carattere religioso e guerriero. Si svolge di notte, alla luce delle torce.
La rivoluzione fascista non è solo politica. È partecipe di una fede e madre di una mistica senza eguali nella storia del mondo. Il termine mistica, secondo Louis Rougier definisce un complesso di proposizioni a cui si aderisce per tradizione o per sentimento, anche se queste proposizioni non si possono giustificare razionalmente. Ecco quindi come il Fascismo ripropone nel novecento la proposizione Mazziniana che da sola già portava il seme della poesia del ventesimo secolo, ovvero l’affermazione ostile a ogni forma di riduzionismo che postuli la subordinazione dell’uomo all’economia: “l’uomo non è ciò che mangia e produce, ma ciò in cui crede”. Prima di Marx e degli esperimenti comunisti della comune di Parigi l’insurrezione repubblicana del 1849 a Roma traccia già quella terza via che sboccherà nella marea fascista. E il pensiero mazziniano seppur aspramente criticato non è immaturo all’epoca del martirio di Mameli, da tempo infatti è annidato nel cuore del genovese, che a soli vent’anni commentava Foscolo scrivendo: “Ben dice l’Ortis: che è l’uomo, se lo si lasci alla sola e fredda ragione calcolatrice? Scellerato, e scellerato bassamente”. Si profila già quel cambio di prospettiva con cui Mussolini sposterà l’asse della sua rivoluzione: non più scontro orizzontale, ma assalto verticale. Lotta tra ciò che è bello e coraggioso contro ciò che è brutto e vile, a prescindere dall’estrazione sociale, la classe, il denaro.
Parla ancora Venner, seguendoci come un Virgilio in questo viaggio tra i morti e i vivi: Se concentriamo l’attenzione sull’ambiente da cui è sorto, ne emerge che il fascismo fu la riscossa inaspettata e temporanea di un tipo umano, presente in maniera preponderante in tutta Europa prima del XIX secolo, quella del guerriero (homme d’épée), che il trionfo della borghesia aveva relegato in una posizione subalterna, disprezzata e marginale. In altre parole, l’originalità essenziale del fascismo risiede nell’essere stato un movimento plebeo animato da un’etica militare e aristocratica. Questa caratteristica probabilmente non definisce il fascismo in tutta la sua complessità, ma di certo ne coglie l’essenza…
1849, 1919. Queste date si incardinano in una storia senza tempo, quella di Roma e la sua visione del mondo, dove il ventre economico e mercantile non ha mai il sopravvento sul corpo sacro e guerriero. Una visione che è gerarchia di valori ancestrali, che già la Repubblica di Platone incardina in un ordine cosmico senza tempo. Una visione che non è classismo ma sintesi, la stessa che gli uomini di Mussolini compiono il 23 marzo 1919 a Milano quando gli affluenti dei rivi carsici tornano in superficie per la risorgiva fascista: la rivoluzione è sempre nuova, come nuovi sono quelli sulla Terra. Prima o poi siamo tutti nuovi, e cerchiamo qualcosa di originale. La novità del Fascismo è la fede unita alla politica, la chiesa di tutte le eresie si costruisce nella sintesi tra classe e nazione. Era ciò che mancava a Mazzini: il grande evento, il bagno di sangue dove gli uomini sarebbero dovuti passare per costruire prima nella carne le lettere dei poeti estinti. La rivoluzione si compie sul Carso, sull’Isonzo, dalle Alpi al Piave, nell’Adriatico e nei cieli di Vienna quando il popolo mazziniano si trasmuta in trincerocrazia mussoliniana: Sono ammirevoli nel loro candore quelli che si tengono ancora disperatamente aggrappati ai vecchi schemi mentali. È gente che perde il treno. Il treno passa e quelli rimangono sul trottoir della stazione, con la faccia smorfiata fra l’ebetismo e il dispetto. Le parole repubblica, democrazia, radicalismo, liberalismo; la stessa parola «socialismo» non hanno più senso: ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro i milioni di «ritornati». E potrà essere tutt’altra cosa. Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale. I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e nazione.
Quando le parole non hanno più senso sta a noi riempirle di senso nuovo. C’è Repubblica e repubblica, c’è Patria e patria, c’è Rivoluzione e rivoluzione. Quando tutto ci sembra vuoto e privo di significato bisogna imbastire cerimoniali sul nulla, accendere un fuoco e soffiarci sopra. Il 23 marzo 1919 è la primavera di una rivoluzione che viene da lontano, è lo spirito italiano che si manifesta al suo compimento supremo, è la fine del Risorgimento e l’inizio della nostra storia. Il Fascismo non poteva essere altrimenti, non poteva non essere italiano, europeo e mediterraneo. Non poteva non essere rivoluzionario nelle sue istanze più radicali ed innovative, non poteva non essere popolare ed aristocratico come quel sogno di Roma avuto da Catilina prima della battaglia di Pistoia: una Repubblica dove le gens nobili e i valori del mos maiorum avrebbero restaurato il primato della politica sull’oligarchia senatoriale; o quello avuto da Federico II di Svevia: una Roma libera dallo stato temporale e nuovo faro di civiltà per l’impero ecumenico; o quello di Dante e di Mazzini: una terza Roma patria dell’anima e dello spirito contro il materialismo storico. Una Repubblica dei migliori, dei guerrieri, dei credenti, dei giovani, contro le burocrazie oligarchiche e gerontocratiche, contro le ricchezze improduttive e le usure, contro gli uomini di paglia senza storia e senza coraggio, contro lo status quo ordinato sugli standard dell’infamia e del minimo sforzo.
Gli storici ci darebbero dei pazzi. Come è possibile ordinare in una stessa storia personaggi tanto lontani, diversi, spesso controversi. Perché gli storici non capiscono niente. Una mente accademica non può partorire nulla al di là dei capitoli con cui la storiografia segmenta i periodi. Noi non siamo un segmento. Perché ci occorre sapere questa storia? Perché è vitale per noi dare un nuovo senso al mondo che ci circonda, recuperando dal passato ciò che noi abbiamo eletto come nostra storia. Nella battaglia delle parole e dei nomi portata avanti dalla cancel culture antifascista si annida un nemico ben peggiore della scomparsa di un monumento, di un rilievo o della toponomastica urbana. Cancellando i nomi cancellano le idee dietro quei nomi. Ed è significativo e non casuale il fatto che l’ultimo in ordine cronologico sia stato quello di Italo Balbo da una carlinga di un aereo. Quale idea? L’idea dell’Italia potenza europea, mediterranea ed imperiale votata alla giustizia sociale tra i popoli del mondo e non al servilismo di questo o quel padrone. Una visione di grandezza che non è dell’antifascismo costituzionale, cane da guardia dell’ordine costituito a Yalta e pietra tombale sulla nostra storia. È attuale più che mai, perché è oggi che si gioca la partita tra chi vuole un paese fuori dalla storia e chi desidera di più, si gioca tutti i giorni nelle nostre vite quando possiamo offrire l’esempio di un altro tipo di italiano a chi ci sta vicino. Siamo ciò in cui crediamo e come diceva il generale iraniano Qassem Soleimani: se i nostri pensieri sono alti ci portano in alto. Non è astrazione ma pedagogia rivoluzionaria. È l’educazione mazziniana del popolo, che invece dall’imposizione nozionistica ed accademica della cultura ha bisogno di esperienza vivente, del pane dell’anima che va nutrita quanto il nostro apparato digerente. E Mazzini avverte, più attuale che mai, non può esserci pace senza giustizia e nemmeno rivoluzione sociale senza educazione, le istanze rimarranno sterili finché non abbiate un’Italia.
Scrive Cesare Mazza nel 1993, in Atemporalità ed Universalità del Fascismo: Disciplina, Ordine, Univocità, Gerarchia dei valori, Responsabilità, Collaborazione, Solarità, Visione Globale delle cose, profonda spiritualità di informazione e di condotta, Ardimento, Sacrificio, significato e senso dello Stato e della Nazione, orgoglio del sangue, per trasmigrare nella concezione di una Patria che è nell’ordine dell’Universo. Questi sono gli itinera e gli strumenti della Grande Rivoluzione, che la mirabile, “religiosa infezione” fascista coltiva e dovrà ancor più duramente coltivare. Alle nuove generazioni rivoluzionarie che corrono sempre il rischio, al crocevia della storia, di distrarsi, perlomeno parzialmente, dietro filosofie dimidiate o farneticazioni inconcludenti, quando non suicide; dietro ordini morali o volumi di saggezza che con le radici mediterranee hanno ben poco da spartire; dietro filosofemi e logorroiche diatribe che hanno il valore del raglio di un asino, va l’appello a non farsi distorcere dalla strada maestra. Il Fascismo non ha bisogno di miti d’importazione, di corroboranti estranei alla Civiltà di Roma, al soffio d’eterno che spira sulla sua missione storica. Il nostro è il mito del sole, della vita eroica, della dedizione e della bellezza.
Ecco perché ovunque saremo là sarà Roma, perché la Patria che portiamo dentro è incarnata dal nostro stile, dalla nostra personalità, dal nostro saper fare. Noi siamo Roma in ogni luogo e in ogni tempo: tante unità che anche da sole riescono a costruire in sé la propria patria interiore, che anche se solo pensata sarebbe pur sempre esistita. Ecco perché Roma non è qualcosa di scontato o già dato ma una missione verso noi stessi. La nostra è sempre stata non solo una rivoluzione politica e sociale ma una rivoluzione dello spirito che torna in Italia nella primavera del 1919 per non andarsene più. Nemmeno il luglio del 1943 ha potuto spazzarla via e la Repubblica Sociale Italiana è il suo massimo compimento, di nuovo insignita dell’aquila e il fascio littorio, simboli immortali della nostra marcia. A Milano si compie il destino carsico e sotterraneo che ha scavato in venti secoli le viscere dell’Italia: il ritorno dei fasci, il ritorno a Roma delle schiere viventi insieme a tutti i caduti per la sua idea. Tornano i legionari, tornano i garibaldini, torna Mazzini e Pisacane, tornano i rivoluzionari e i poeti, tornano le camicie nere e i fantasmi del Piave, tornano i consoli e i tribuni, tornano gli eroi. Tutti appiedati e in silenzio. Tutti con noi che oggi, bastardi dell’umanità ed esuli senza patria, sparpagliati e dispersi in ogni dove, stringiamo ancora il bandolo della matassa per ritrovare la via di Casa.
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