di Alessia

Diagnosi Preimpianto: un argomento di cui si sente poco discutere, ma che per anni ha alzato polemiche sull’etica della fecondazione assistita, definita da molti un mercato di bambini, ma che piuttosto garantisce un mezzo valido per difendere il diritto di salute.

Si tratta di un’indagine precoce che consente l’individuazione di anomalie genetiche negli embrioni prima dell’impianto, scartando dunque quelli con alterazione genetica o cromosomica.

Questa, si propone quando il rischio di trasmissibilità della malattia risulta essere elevato, e soprattutto, correlata ad un’elevata gravità, come quella del tumore alla retina, la distrofia di Duchenne o l’atrofia muscolare spinale.

Per dare il via a questa procedura è tassativa la certificazione di un genetista medico.

Nella pratica, essa consiste in una fecondazione in vitro, in cui l’embrione cresce per qualche giorno in provetta anziché nel grembo materno. Ciò permette di prelevare delle cellule embrionali per sequenziare il DNA e riscontrare anomalie nei geni o nei cromosomi.

Ciò da cui erompe la polemica è la procedura seguente: se l’embrione è sano viene impianto, al contrario se presenta difetti genetici viene congelato.

La legge 40 del 2004 regolamenta il ricorso alla procreazione assistita.

La realtà è che al tempo le nuove norme in materia di procreazione assistita resero inapplicabile la suddetta pratica in quanto vietavano il congelamento di questi ultimi.

Nel 2009 la Corte costituzionale stabilì illegittimo consentire questo proprio per l’inapplicabilità della pratica stessa, consentendo dunque, di impiegare per pochi giorni, gli embrioni scartati all’osservazione scientifica.

Dal tema scaturirono inevitabilmente controversie, specialmente riguardo la negazione delle linee guida di far adottare questa pratica a coppie fertili portatrici sane di malattie genetiche, la cui procedura istituiva l’unica speranza di concepimento di figli sani.

Tale decisione venne definita come discriminatoria perché garantiva l’accesso a forme di selezione embrionale solo alle coppie sterili; questo fino al 2015.

Il bivio che separa il diritto alla salute e la coscienza del singolo, si presenta arrivati a questo punto:

Tale esercizio si rivela estremamente essenziale per quelle coppie che vogliono evitare la nascita di un figlio la cui malattia talvolta non coincide con la vita, o evitare gravidanze che, a causa delle suddette, porterebbero inevitabilmente ad aborto spontaneo.

In merito a ciò, la diagnosi Preimpianto tutela il diritto di dare alla luce un figlio sano con aspettative di vita. L’antagonista della storia sembra però essere proprio chi pratica questi metodi diagnostici prenatali, non garantite dal Sistema Sanitario Nazionale, vale a dire prevalentemente aziende private che impongono prezzi esorbitanti anche per una più banale amniocentesi, che già in un ospedale pubblico sfiora i 700 euro.

Oggi la bioetica si interroga, e teme che tali interventi possano essere implicati, sulla base del mero guadagno, anche per la selezione di embrioni con precise caratteristiche fisiche in cui selezionare i geni del proprio bambino con le stesse modalità con cui si va a fare la spesa.

Da un lato l’idea che qualcuno possa essere in grado di esercitare un tale controllo nell’ambito, spingendosi sempre più a esperimenti di modificazione della linea di sviluppo embrionale, come già accadde di recente in Cina per lo scandalo delle bambine Crispr, risulta essere agghiacciante.

D’altro lato l’idea che tali innovazioni, impiegate solo per evitare la trasmissione di gravi malattie genetiche ereditarie, siano già state in grado garantire il diritto fondamentale alla vita e il diritto alla salute a dei bambini e alle loro generazioni future, può farci ancora credere nella comunità scientifica ancora legata alle questioni morali.

Nel 2016 i bambini nati grazie alla diagnosi Preimpianto sono stati 599, bambini che probabilmente mai sarebbero nati senza questo sistema, o che, nella peggiore dei casi, sarebbero andati incontro a morte infantile.