Di Moro
Stiamo vivendo un momento molto particolare nella storia delle relazioni internazionali. Da qualche mese, infatti, la rivalità tra Stati Uniti e Cina sta riproponendo dei presupposti ideologici. Questo, di fatto, segna da parte di Biden un potenziamento della politica del suo predecessore. Quello che aveva infatti avviato Donald Trump con la guerra commerciale, Biden lo sta ancor più trasponendo su un piano politico. Sembra inoltre essere aumentata la politica di contrasto alla Cina sul fronte Indo-Pacifico portata avanti dalla precedente presidenza.
Washington, nel corso dell’ultima presidenza, ha infatti annunciato il boicottaggio diplomatico delle olimpiadi invernali di Pechino 2022 e ha attualizzato diverse alleanze in chiave anti-cinese, come il QUAD – in accordo con Giappone, India e Australia – e il patto AUKUS, per fornire sottomarini nucleari a una Canberra oramai sempre più una rivale dal Dragone. Non si è nemmeno risparmiata dichiarazioni e accuse, questo nonostante la chiara volontà di collaborazione espressa durante l’ultimo incontro tra Xí Jìnpíng e Joe Biden.
Uno degli ultimi fattori di scontro tra le due potenze è stata la convocazione unilaterale di un “summit globaledelle democrazie” da parte degli Stati Uniti, il quale vede la deliberata esclusione di Pechino. Subito questo ha portato la Cina a denunciarne il carattere fazioso dell’iniziativa. Si pone l’accento infatti sul come si stia andando verso una nuova polarizzazione delle relazioni tra stati, con un tentativo della stessa Washington di sganciarsi da quel sistema internazionale da loro stessi instaurato alla fine della guerra fredda.
È quindi oramai evidente che gli Stati Uniti si sentano minacciati dalla crescente presenza di Pechino sulla scena internazionale globalizzata, da qui la sempre maggiore importanza del fascicolo Taiwan all’interno dei ministeri degli esteri delle principali potenze affacciate sull’Indo-Pacifico. L’invito alle autorità di Táiběi a partecipare al summit delle democrazie al posto della Repubblica Popolare Cinese lascia infatti intravedere l’importanza che ha questa scacchiera ha ritrovato nella definizione della geopolitica del domani.
L’isola di Formosa, ospitante il governo non riconosciuto internazionalmente della Repubblica di Cina, ricopre infatti un ruolo centrale nella geografia dell’oceano Pacifico. Posta tra Cina, Giappone e Filippine, la sua importanza strategica è nota fin dalla prima epoca moderna. Un tempo abitata da aborigeni, fu uno scalo importante del commercio della Spagna e soprattutto dell’Olanda. All’instaurazione della dinastia Qīng, gli europei furono cacciati dai lealisti della dinastia Míng. L’isola fu poi integrata nel 1683 all’impero di mezzo. All’arrivo dei nuovi funzionari, il territorio vedeva già da qualche tempo la convivenza di aborigeni e cinesi.
Occupata dal Giappone, Taiwan fu restituita alla Cina nel 1945. Nel 1949 vi si rifugiarono le forze del generale Chén Jièshí (Chen Kai-Shek) dove instaurarono un governo di stampo militare supportato dagli Stati Uniti. Negli anni ’70 perse il seggio all’ONU e il suo riconoscimento internazionale. Dopo un lungo processo di democratizzazione, nel 2019 è stato il primo governo asiatico a legalizzare i matrimoni tra coppie dello stesso sesso e puntano per il 2030 ad essere un’isola bilingue, con il radicamento dell’inglese e dello “stile di vita americano”.
L’importanza strategica di quest’isola è parsa sempre più evidente a partire dalla conquista Giapponese nel 1895. Tutt’oggi la sua posizione funge da bastione di quella catena di isole che preclude alla marina cinese l’accesso alle acque del pacifico. Questo garantisce agli Stati Uniti un predominio praticamente incontrastato sul medio e sud pacifico. Un eventuale accesso della Cina a queste acque comporterebbe senz’altro l’interruzione della beata solitudine della settima flotta statunitense.
D’altro canto, gli Stati Uniti temono anche sul fronte della credibilità internazionale. Le tensioni sino-americane non sono inedite e già ai tempi della guerra fredda videro emergere la questione di Taiwan. Allora gli Stati Uniti giunsero anche a firmare un accordo con il governo della provincia ribelle, in cui Washington si impegnava a intervenire a favore dell’isola qualora fosse stata invasa. L’instaurazione di relazioni diplomatiche con il governo comunista vide il riconoscimento della “politica dell’unica Cina”, in cui si attribuiva a Pechino il ruolo di unico legittimo rappresentante della nazione, senza che questo comportasse però la rinuncia alle relazioni con Taiwan.
Tutt’oggi Washington tiene testa a questo impegno e, alla luce dell’incremento della pressione militare della Cina, un eventuale dietrofront degli Stati Uniti porterebbe conseguenze nelle relazioni con tutti gli alleati americani. L’esempio più evidente è il Giappone, che già pensa ad un riarmo, questa si rivela essere prospettiva inquietante per una Washington che potrebbe vedere Tokyo fuori dalla sua sfera di influenza e in grado di fare concorrenza a lei, oltre che al Dragone. Persino il ruolo del pentagono nell’alleanza atlantica potrebbe risentirne.
Taiwan tiene inoltre legato il complesso sistema di alleanze americano nel pacifico. È il perno che tiene unito il Giappone e la Corea del Sud alle Filippine e all’Australia, il suo riassorbimento nella nazione cinese rappresenterebbe non solo l’opportunità della Cina di affacciarsi al pacifico, ma anche l’occasione di allontanare e rompere l’accerchiamento degli avversari. Sarebbe ad un passo dalle Ryukyu e a due passi dallo snodo strategico rappresentato dall’Isola di Guam, avamposto territoriale di Washington e sede di un’importante base militare.
Vedi anche: https://www.bloccostudentesco.org/2021/09/17/bs-mar-cinese-meridionale/
Oltre alla componente delle alleanze e dei trattati, Taiwan ha un sistema quantomai compatibile con quello americano, a dire degli statunitensi difendere lo status quo della provincia ribelle è proteggere un modello di società democratico e progressista, nel caso specifico di Biden. Il suo non intervento in caso di guerra metterebbe in discussione la validità dei “valori democratici”.
Il fattore economico integra quello strategico militare. Le aziende di Taiwan detengono da sole oltre la metà del mercato dei semi-conduttori a livello mondiale. La TSMC è la componente più importante di questa eccellenza industriale. Il riassorbimento di Taiwan comporterebbe il trasferimento nelle mani della Cina di filiere produttive, tecnologie e macchinari dal valore inestimabile, con il rischio che gli Stati Uniti rimangano una volta per tutte indietro nel settore tecnologico. Nel caso di una guerra, inoltre, i danni per il mercato internazionale sarebbero incalcolabili.
È quindi comprensibile che le parti internazionali si stiano adoperando per ridurre la loro dipendenza dalle aziende taiwanesi. Si annunciano già programmi per lo sviluppo del settore in Cina, Europa e Stati Uniti e, anche se difficilmente Taiwan cederà fette esorbitanti del suo mercato in poco tempo, questo quantomeno segnerà l’inizio di una polarizzazione nel settore dei semiconduttori. Il caso più degno di nota è Huáwèi, che dopo essere stata bandita dagli Stati Uniti si prepara a eguagliare Samsung con la sua personale gamma di semiconduttori.
È quindi oramai interamente una questione di polarizzazioni. Washington vuole fermare il tentativo cinese di integrarsi interamente nel mondo globalizzato, perché entrambi sono consapevoli che Pechino lo rivoluzionerebbe e Washington ne uscirebbe spodestata. Sebbene “Guerra Fredda” sia un termine anacronistico e limitante, tuttavia lo scenario di Taiwan altro non si ritrova essere che la linea di contatto tra due potenze oramai rivali.
A dire di Washington bisognerebbe tenere lo “Status Quo”, Biden ha detto allo stesso incontro con Xí di voler rispondere a qualsiasi tentativo di modificare lo stato attuale delle cose. L’America gioca sull’ambiguità strategica e nonostante riconosca una sola Cina, per il proprio interesse non è pronta a mettere in pratica questa politica. Le dichiarazioni di Pechino sono invece tutt’altro che equivoche: una delle sue missioni storiche è quella di portare a compimento la riunificazione della nazione entro il 2049, il centenario della Repubblica. Questo obiettivo è da realizzarsi con mezzi pacifici, ma non si esclude il ricorso alla forza militare.
Ma quindi perché Washington tiene tanto a Taiwan? La sua azione si estende per tutto l’Indo-Pacifico, sfruttando importanti relazioni con India, Giappone, Vietnam, Australia, Corea del Sud, Regno Unito, Nuova Zelanda e altri attori di minore importanza. Taiwan tuttavia costituisce un caso particolare per le motivazioni socio-politiche, geografiche ed economiche sopra indicate. L’isola costituisce una punta di diamante della strategia di contenimento e le stesse autorità locali rientrano in quella categoria di alleati di Washington sinceramente fedeli al suo modello, consapevoli del fatto che i loro interessi vanno di pari passo con il mantenimento del modello statunitense nell’area.
Cosa significa quindi per gli Stati Uniti perdere Taiwan? Di base dipende anche da quanta resistenza vi oppongono, se la riunificazione sarà pacifica o violenta e da fattori che si potranno analizzare solo con il senno del poi. L’isola è ancora la chiave per la transizione verso un mondo multipolare, ed è di conseguenza uno dei sigilli della talassocrazia americana, che da decenni le garantisce il mantenimento di un modello internazionale incentrato su di loro.
Quali che saranno quindi le prospettive per il futuro, certo è che la guerra non sia escludibile e che in realtà al momento questa prospettiva sarebbe più favorevole agli Stati Uniti. Il riarmo cinese è ancora in una fase adolescenziale, nonostante gli enormi progressi. La marina di Pechino ha di recente superato per numero di navi quella di Washington, anche se il Pentagono gode di una qualità e soprattutto di un tonnellaggio molto maggiore. Si pensi solo che le portaerei cinesi, contando quelle in costruzione, sono 4, mentre gli Stati Uniti ne hanno già operative almeno 11.
La supremazia militare degli Stati Uniti e il numero abbondante di alleati si accompagna ad una geografia taiwanese ardua, con appena undici spiagge adeguate ad uno sbarco anfibio e un territorio montagnoso. Indice del fatto che la Cina, nonostante le esercitazioni militari e le violazioni dello spazio aereo insulare, non ha un reale interesse a invadere la provincia ribelle. Discorso diverso per gli Stati Uniti che invece traggono vantaggio da un’autentica narrativa dell’attacco imminente che le consente di contenere e soffocare il dragone.
Solo la storia ci dirà chi avrà ragione di questa inedita situazione. Il rapido deterioramento delle relazioni sino-americane lascia tuttavia intravedere che Taiwan è in definitiva uno degli assi nella manica degli Stati Uniti. Il loro assetto strategico implica il contenimento della Cina dentro la prima cerchia di isole. Nel caso questo tentativo fallisse, quello che ci troveremmo sarebbe senz’altro un mondo dove gli Stati Uniti potrebbero vedere ridotto il loro potere anche fino allo stato di potenza regionale.
Prospettiva quasi utopistica, certo, ma è innegabile come la decadenza americana vedrà la crescita proporzionale di altri attori. Cina, Russia, Iran, Giappone, India, Europa, Sud-Est asiatico e Turchia sono solo alcuni dei possibili esempi. Quello che si prospetta è quindi il ritorno ad un sistema internazionale multipolare, prospettiva allettante per una Cina rinata e pronta a fare affari col mondo in una prospettiva paritaria.
Vedi anche: https://www.bloccostudentesco.org/2021/11/18/bs-sud-est-asiatico-nuova-cina/
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