Di Jen
Ci siamo appena lasciati alle spalle il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita dall’Onu, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi delitti e sull’incidenza di essi.
Siamo stati inondati di spot pubblicitari, di cliché ripetuti ovunque e di una buona dose di perbenismo sfoggiato per rendere più decorosa quella che in realtà è solo una verità molto amara: le scarpe rosse, la pizza margherita che ti salva la vita e tutte le altre iniziative di cui abbiamo sentito parlare sono senz’altro portatrici di un valore morale altissimo ma che non esprimono nessuna fiducia agli occhi della vittima.
Bisogna chiedersi, infatti, nonostante tutti i protocolli speciali, il codice rosso e la dose di attenzione minuziosa che ci vengono promessi: perché le donne in queste situazioni sono ancora tanto restie a denunciare?
Probabilmente la risposta è che la tutela che ci viene promessa nel momento in cui ci si rivolge all’autorità competente non esiste sempre di fatto e ciò non è rassicurante a tal punto da far mettere da parte il timore delle conseguenze una donna che subisce violenza.
Negli ultimi anni è innegabile che si sia registrato un inasprimento delle sanzioni e delle pene per coloro che vengono accusati di certi tipi di reato, che ci siano stati dei tavoli di lavoro e che si sia confezionato un codice molto chiaro in materia. Siamo però ancora lontani dall’applicazione reale di quanto è stato codificato, restiamo quindi uno Stato molto attento, potenzialmente, ma in atto penosamente lacunoso.
Secondo le varie normative, infatti è previsto che una volta sporta la denuncia il pm incaricato per le indagini abbia tre giorni per raccogliere informazioni sulle parti e sulle dinamiche: tre giorni, un tempo relativamente breve se venisse rispettato e se le situazioni non venissero gestite con il modus operandi della burocrazia italiana.
Non è necessario ricorrere a chissà quali mezzi per avere un esempio di come vengono gestite le situazioni di emergenza; qualche giorno fa, infatti, Netflix ha messo a disposizione, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, un film che ripercorre la drammatica vicenda di Yara Gambirasio, ragazzina tredicenne rapita e ritrovata morta mesi dopo in un campo. Parallelamente alla vicenda della giovane bergamasca s’insiste durante il film su come vennero gestite le indagini e su come esponenti della classe politica le definirono svariate volte “troppo dispendiose”.
Cercare giustizia per un’innocente è dispendioso e allo Stato evidentemente questa spesa pesava di più di altri futili investimenti per stare al passo con la mentalità dominante: le indagini sono costose, le case famiglia per mamme e bambini sono esose a tal punto di essere presenti in numero limitato e insoddisfacente sul territorio… è quindi tutto troppo.
Come sopperire alle mancanze? Con il classico metodo di cercare di coprirle con le parole: trasmissioni televisive e social che pullulano di belle frasi e prospettive radiose che dipingono il mondo dopo aver sporto denuncia come un “El dorado” pieno di avvocati, psicologi e chi per loro pronti ad aiutare pro bono chi ne ha bisogno. Tutto molto semplice a detta loro peccato che di semplice, in realtà, non c’è veramente nulla e ci ritroviamo con un numero non certo esiguo di violenze che vengono commesse reiteratamente e che sfociano nelle situazioni più assurde. Ci ritroviamo a dover sentire il numero delle vittime di violenza che cresce rapidamente di giorno in giorno quando magari iniziando a lavorare seriamente sul problema si potrebbero evitare decine di casi.
Nel teatro dell’irrealizzabilità, il copione del fallimento dei buoni propositi vanta di parecchie voci ma nessuna di queste si erge fuori dal coro dicendo basta a questa cantilena imbarazzante; seguono, anzi, tutti all’unisono il ritornello sulla pizza che salva la vita vestiti della loro ipocrisia e marchiati di un segno rosso sotto l’occhio.
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