Di Sergio

Il film questa volta non fa sconti, tagli, abbellimenti politically correct. Salvo l’inserimento (mettiamo subito le mani avanti) di un’attrice afroamericana nel ruolo maschile (nel libro) dell’ecologo imperiale Liet-Kynes. Una sbavatura che però non fa rimpiangere la versione di Lynch in cui ad interpretarlo fu un mostro sacro come Max Von Sydow che nel film del 1984, seppur perfetto nel ruolo, svolge quasi una comparsa e non trova completezza e non rende – infine – giustizia a quello che è invece un perno centrale dell’opera di Herbert. Villeneuve – al contrario – sbaglia attore ma riesce a donargli una complessità maggiore e soprattutto introduce nella storia quella sottotrama ecologica (accennata nella prima parte) che affronteremo più avanti.

Il film è potente già dalle prime sequenze e cattura subito lo sguardo: il vento che accarezza le dune del deserto del Wadi Rum, dove è stato girato buona parte delle due ore e trentacinque del film, ed una voce narrante che ci immerge subito nella storia, anzi ci cala subito nella lotta. Arrakis, il pianeta Dune. È un mondo deserto che da secoli vive sotto occupazione militare. Perché? Perché tra le sabbie roventi del pianeta si cela l’oro dell’Universo, la Spezia, la sostanza psicotropa che espande la percezione della mente, allunga la vita e permette ai navigatori della Gilda Spaziale di annullare lo spazio-tempo rendendo possibile il viaggio interstellare. Il monopolio della Gilda, la classica grande compagnia dei film di fantascienza, influisce sugli equilibri politici dell’Impero che a sua volta dispone di Arrakis come un mandato, un feudo, affidato ciclicamente alle grandi casate in uso frutto per l’estrazione della preziosa sostanza. Il tema è chiaro: chi controlla Dune ha il potere, ma quale potere? La pellicola si apre come un’invocazione alla guerra ed un inno all’identità, con i movimenti plastici dei guerrieri Fremen (resi eccezionali in slow motion, quasi a fare da contraltare al vento che soffia) che spuntano fuori dalle sabbie come spettri e assaltano i mietitori di Spezia, torve figure mastodontiche che “arrivano di notte e lottano contro il tempo perché hanno paura del giorno” (di giorno le temperaturesarebbero insopportabili). È la lotta archetipica, la guerra per eccellenza, quella di un popolo contro l’occupante straniero che “saccheggia le nostre terre” ed “è crudele con il nostro popolo”. La voce narrante di questa sequenza-spiegone è quella di Chani, la ragazza guerriera Fremen che farà da ponte onirico sul protagonista principale del film, ovvero Paul Atreides, unendo due mondi distanti anni luce. La potenza estetica del film è firmata Villeneuve: un regista che nell’affrontare grandi film e distopie (come Blade Runner 2049 o Arrivals) non dimentica mai di rendere epica e mitica anche la scena più semplice del film, anche (va detto) a costo del ritmo del film che, come ogni opera del canadese risulta magnificamente lenta. Così, seppur ambientato nel remoto futuro il film ci restituisce immagini di un ciclo eroico, dove soldato è anche sinonimo di demone e dove scienziato è anche l’altro nome del mago. La trama risulta impreziosita – non importa se volontariamente o solo per fascinazione estetica e necessità artistiche – dai rimandi all’immaginario della tradizione occidentale e si fanno così simboli-vettori della nostra visione: il continuo riferimento al toro (SIC!) e alla tauromachia, la potenza della voce e il suono che comanda, la percezione di onore e la fedeltà degli Atreides, le cornamuse che accompagnano la battaglia… Grazie anche al comparto costumi/scenografie/design/postproduzione da fare invidia a Goebbels, il film è un esperienza totalizzante e mobilita al cento per cento i sensi dello spettatore, che non può far altro che rimanere incollato occhi e orecchie allo schermo.

Il film gioca ed indugia sui sogni del giovane Paul, figlio del Duca Leto Atreides signore di Caladan e ascendente leader dell’Impero, e si apre con una piccola ed enigmatica frase: I sogni sono messaggi dal profondo. Proprio su questo dualismo si svolge tutto il film, reso vibrante ed evocativo con continue immagini oniriche e visive di sangue e guerra, sabbia e acqua, amore e vita, sogno e realtà, visione e pratica, che non risultano concepiti come enti scollegati ma come un unico flusso (e plesso) psico-somatico che agisce e fa agire. I sogni di Paul gli mostrano cose che saranno ma soprattutto le possibilità, cose che potrebbero essere, altri lui che potrebbe diventare, vie che possono essere seguite oppure abbandonate. Quali si realizzeranno? Lo scopriremo solo imboccando la via con Paul, immergendoci nel deserto insieme ai Fremen, alla ricerca del vero potere del deserto.

È il film della nostra generazione? Molto probabilmente sì, perché porta in scena la fantascienza come non si vedeva da tanto, troppo, tempo. Visivamente potente, l’esperienza di Dune non risente del budget a discapito della qualità della trama, e non risulta sfigurato nelle sue visioni più metafisiche e trascendentali, non minimizza e non diluisce la portata arcaica della violenza ma anzi porta lo spettatore insieme ai protagonisti immergendoli nell’azione, con Duncan Idaho e il Duca Leto nelle loro magnifiche morti (Qui sono e qui rimango, sentenzia Leto interpretato da Oscar Isaac prima di darsi la morte) e con Paul nella sua ascesa a leader e capo di uomini liberi, quando inizierà a percepire di dover incarnare un ruolo più grande di quello del padre e anche dell’Imperatore stesso: “Vedo una guerra santa che divampa come un fuoco per tutto l’universo. Spinti da una religione guerriera alzeranno i vessilli degli Atreides in mio nome. Orde di fanatici adoreranno il santuario del teschio di mio padre”. Mica spicci. Villeneuve si prende sulle spalle un carico non indifferente di aspettative per raccogliere il plauso quasi totalmente unanime di pubblico e critica. È uno di quei rari casi dove qualità e quantità sono tutt’uno, creando uno spaccato tra ciò che è prima e ciò che sarà dopo. Aiutato dalle musiche sempre azzeccate di un mostro come Hans Zimmer, che riesce ad unire litanie arabe con neofolk nordico, il film come si suol dire è da Oscar.

Ma oltre la statuetta, che probabilmente arriverà, perché a noi dovrebbe piacere un film così? Alcune tracce potrebbero esserci utili a seguire con maggiore attenzione l’opera cinematografica e letteraria. In primis, come già detto, ci sono i Fremen che combattono una guerra senza quartiere per la propria terra strappatagli da avidi carcerieri ed aguzzini. Quello che di primo acchito potrebbe sembrare del facile terzomondismo è in realtà qualcosa di più: infatti, i Fremen non anelano a vivere come “noi occidentali” e la guerra che portano avanti con ferocia e fanatismo è più simile ad una guerra per l’identità che per il potere del denaro. Vivono in comunità in costante rapporto di amore/odio con il deserto, non vivono di morali accomodanti ma solo di etica stoica ed eroica. Il denaro non ci interessa… cos’hai da offrire di più dell’acqua del tuo corpo? Ci troviamo quindi di fronte ad un popolo libero che per di più non vuole andarsene o scappare ma costruire su Arrakis una nuova ecologia planetaria per mutare il suo aspetto. Vivono nel deserto ma sognano le foreste, le piantagioni, l’acqua dei mari e generazione dopo generazione educano i figli ad un progetto di trasformazione e terra-formazione senza però mai perdere il contatto con ciò che li rende unici: il deserto che tempra il fedele ed educa ad una vita di lotta, alle virtù di rinuncia ed ascesi.

E qui, in secundis, si installa quella trama ecologica che nei libri trova maggiore completezza e complessità. Infatti, i Fremen con il supporto dell’ecologo imperiale Liet-Keynes e di suo padre prima di lui hanno imboccato la via della trasformazione di Dune in un giardino. Cosa ci insegna? Che non può esserci buona ecologia della natura senza una buona ecologia degli uomini. È l’uomo che plasma il suo ambiente, a scanso di reazionarismo e luddismo tanto al chilo su bucolici passati perduti ed Eden cristiani. I Fremen vivono nel deserto, lo rispettano e lo incarnano, ma vogliono di più, vogliono conquistare maggiori spazi e portare le loro virtù in un mondo non desertico. Vogliono far crescere alberi e piantagioni, e nel film è molto calzante la scena in cui Paul, a passeggio nella città, si chiede perché delle palme da dattero che consumano cento vite di acqua al giorno non vengano rimosse per risparmiare (un po’ il mito della decrescita). Viene quindi interrotto dal giardiniere che le cura: sono sacre perché rappresentano una vecchia promessa. Proprio quella promessa di piantare radici ed innalzarle al cielo, contro tutto e tutti, contro il deserto che ci circonda. C’è una visione quindi, oltre l’apparente nulla, una missione imperiale e di civilizzazione che investe gli uomini liberi: nel deserto vi è tutto e nulla – diceva Balzac. Nel deserto di pietra che è la città moderna, vi è un vuoto ancora più assoluto, il terrore senza nome: gli uomini senza Dio. Gli uomini liberi (free-men) non sono le disincantate figure che affollano le nostre città, ma quelli che vivono per vedere oltre e mettere radici tra le dune, immaginando un giorno di avere una quercia. Conquista, non rinuncia.

Dune è veramente un pozzo da cui attingere a piene mani. Dai libri e dal film in eguale misura. Perché? Perché porta nel 2021 l’eterna sfida alle stelle contro le decrescile in-felici e le odissee nello strazio, la volontà di potenza contro il pensiero debole, un senso di ecologia profonda contro il posticcio ambientalismo gretino. Perché come un messaggio dal profondo ci svela un piccolo segreto, nascosto proprio sotto i nostri occhi: “Colui che può distruggere qualcosa ne ha il pieno controllo”. Una verità che sappiamo essere vera, perché risveglia in noi la sensazione di averlo sempre saputo. Chi ha il controllo? Loro? Le banche e le industrie, le scuole e gli uffici, le app ed i social? O noi, le persone da cui dipendi, che cuciniamo i tuoi pasti, che togliamo la tua immondizia, colleghiamo le tue telefonate, guidiamo le tue ambulanze, e che ti sorvegliano mentre stai dormendo?

In conclusione, crossover insolenti a parte, il primo libro di Herbert si apre con una dedica insolita quanto enigmatica, rivolta a degli altrettanto misteriosi ignoti: Alle persone le cui fatiche vanno al di là del campo delle idee e penetrano in quello della realtà. – un ideas into action di poundiana memoria, poi continua – agli ecologi del deserto, dovunque essi siano, in qualunque tempo essi operino, dedico questo mio tentativo di anticipazione in umiltà ed ammirazione. Chi sono gli ecologi del deserto? Ecologia è un termine che deriva dal greco ed è propriamente il discorso che riguarda la casa (oikos). Detta così sembra poco, ma se ci pensiamo casa è un termine che dalla terra e i macrospazi intercontinentali identifica anche i microspazi, gli ecosistemi piccoli quanto quelli oceanici. La casa dove viviamo quanto la metropoli. Chi sono quindi questi ecologi? Coloro che vogliono distruggere gli uomini, la casa, la natura? O chi li vuole costruire? Chi si identifica in un luogo perché le sue radici gli indicano la missione di una vecchia promessa o chi luogo non ha e quindi nemmeno missione o responsabilità? Chi vuole trasformare il deserto indurendosi nella lotta o chi vuole che il deserto resti tale, indistinto nulla? A voi la risposta. A noi piace così, scegliere l’incerto invece di ciò che è la normalità: senza cambiamenti qualcosa si addormenta dentro di noi e raramente si sveglia. Noipreferiamo credere dell’assurdo piuttosto che nel nulla.

Andate a vedere il film!