di Michele
La violenza è uno dei temi più problematici della nostra epoca. Tabuizzata e ipocritamente messa al bando nella prassi comune, viene esaltata in maniera voyeuristica se non propriamente pornografica in qualsiasi medium virtuale – che siano essi film, serie tv, canzoni, espressioni artistiche o videogiochi – quasi in una sorta di esorcizzazione collettiva. A fare eccezione è Arancia meccanica. Un vero e proprio spartiacque in questo senso, che a distanza di cinquant’anni dall’uscita della pellicola e sessant’anni dalla pubblicazione del libro lascia ancora interdetti.
La storia è nota. Alex è a capo dei drughi, un gruppo di ragazzi dediti all’ultraviolenza e al lattepiù. Abbandonato durante un colpo, viene arrestato e condannato per omicidio. Pur di uscire di prigione si sottopone ad una procedura sperimentale, la cura Ludovico, è un vero e proprio ricondizionamento che gli rende fisicamente impossibile compiere ogni minimo atto di violenza o di offesa.
La violenza è il leitmotiv di Arancia meccanica, la sua parte più appariscente. Ma concentrarsi solo su questo tema sarebbe sbagliato e ridotto ad una semplice estetizzazione dell’irruenza. In Arancia meccanica la violenza viene mostrata nella sua ambiguità e quindi nella sua autenticità. Viene rifiutata qualsiasi lettura sociologica o, peggio, moralistica. Ad esempio, il sottotesto di una società consumista e senza storia, di una generazione annoiata che si riunisce in gang come in una sorta di tribalismo primordiale, non viene esplorato. La violenza eccede qualsiasi determinismo, rimane come un fondo, un abisso, un qualcosa di insondabile. Ancora meno Arancia meccanica è una anticipazione dei nostri tempi, o – se lo è – lo è nella sua parte repressiva.
L’ambiguità della violenza, perfino nella sua oscenità, serve per discutere dell’ambiguità dell’azione umana. Questo strano essere che è l’uomo può volgersi al male come al bene, all’arte come al crimine, alla musica del buon vecchio Ludovico van come allo stupro di una donna davanti al marito inerme. Non c’è sicurezza del bene. Per correggere il tiro lo Stato attua meccanismi repressivi che vanno a invadere la coscienza del singolo, fino a rieducarlo e ricondizionarlo forzatamente. L’uomo viene privato della capacità di scegliere, ma di lui non rimane altro che un guscio vuoto, un automatismo, un meccanismo ad orologeria solo apparentemente umano: appunto una arancia meccanica.
Come ci ricorda l’autore del romanzo, Anthony di Burgess: «Arancia meccanica doveva essere una sorta di manifesto, addirittura una predica sull’importanza di poter scegliere. Il mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio, a un livello forse inconcepibile, ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale». Una difesa del libero arbitrio spinta quasi fino al suo parossismo, fino all’inconcepibile di un male voluto per sé stesso. A ciò si contrappone un certo riduzionismo che prima tenta di spiegare l’uomo e poi si propone di controllarlo: «La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo».
Non è un caso che, fra tutti i personaggi, sia il cappellano della prigione a protestare contro gli effetti della cura Ludovico. Questa è per certi versi ancora una posizione teologica. Salvare la libertà dell’uomo, anche quella di compiere il male, significa salvare la sua imputabilità di fronte a Dio. Se l’uomo non fosse libero, Dio sarebbe colpevole del peccato. Questa posizione è già fuori una visione tragica dell’esistenza, il male fa scandalo. Se il male è scandalo, allora il mondo va corretto. Se c’è un Dio che è bene universale non c’è spazio per nient’altro. Siamo su quel piano inclinato che va verso una morale del risentimento, verso una teologia egualitaria, verso un universalismo invidioso, un monoteismo dei diritti.
Senza accorgersene, il prete fa già parte di questa spirale verso il basso: ha già accettato il nonsense di un bene universale. In questo senso è solo un momento di quella che Locchi chiamerebbe tendenza egualitaria, che non può far altro che secolarizzarsi nel liberalismo come nel comunismo o nell’attuale religione dei diritti universali. Allo stesso modo Moldbug può definire l’universalismo come «un culto misterico perché elimina le tradizioni teiste rimpiazzando le superstizioni metafisiche con altri misteri filosofici come l’umanità, il progresso, l’eguaglianza, la democrazia, la giustizia, l’ambiente, la comunità, la pace, eccetera».
In tutto questo c’è qualcosa di ironico, poiché come nota Nick Land: «La fede universalista che regna sul mondo col suo egualitarismo democratico è un culto particolare o peculiare che si è scatenato, lungo sentieri identificabili nella storia e nella geografia, con una virulenza epidemica celata sotto le spoglie dell’Illuminismo globale progressista». Ciò ci permette di tornare ad Arancia meccanica con una consapevolezza maggiore. Il tentativo di estromettere la violenza risponde ad esigenze più profonde e chiama in causa la libertà dell’uomo in modo radicale, anche oltre un senso strettamente morale o teologico. La violenza rappresenta la conflittualità del divenire, l’eracliteo “Polemos padre di tutte le cose”. Salvare la possibilità di scelta dell’uomo è salvare la sua capacità di agire che è capacità di fare storia. Significa mantenere un’apertura del mondo. È libertà in senso metafisico ed esistenziale ma è libertà anche in senso politico. Come per Schmitt la guerra rappresenta l’orizzonte sempre possibile della politica, così la violenza lo è dell’agire umano.
È allora ottimista Arancia meccanica quando nel finale Alex, dopo il suo tentativo di suicidio, viene liberato dal suo condizionamento e può tornare a pensare e fare violenza? Nient’affatto. Il passo indietro dello stato e del ministro è, in realtà, un passo in avanti verso quella caduta nichilista di cui dicevamo prima. Ciò che rimane non è più la violenza come caso estremo dell’azione, piuttosto la violenza come desiderio. Quella che all’inizio, per quanto degenerata, poteva sembrare una volontà di affermazione od una spinta aristocratica alla lotta, si trasfigura in immagine pornografica. Lo stato repressivo cede di fronte al soggetto desiderante, in quanto momento più puro dell’uscita dalla storia.
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