Di Bianca
Linguaggio di genere, grammatica inclusiva, discriminazione e sessismo linguistici. Questi i paroloni che ormai ci stanno ripetendo fino alla nausea per avvalorare la validità di segni grafici e di più o meno conosciute da introdurre nella nostra martoriata lingua, come se l’italiano non ne avesse già abbastanza con la sostituzione forzata del maschile col femminile. Ma è in particolare la questione dello “schwa” a essere tornata in auge nell’ultimo periodo.
Poche settimane fa, però, l’Accademia della Crusca ha rigettato l’utilizzo dell’asterisco e in particolare dello “ə” (schwa: pronuncia “scevà“) nella lingua italiana, sostenendo che la vocale neutra non può essere integrata nel nostro sistema grammaticale in quanto il genere neutro “non è in uso nell’italiano standard“. Di conseguenza, la questione dello schwa sarebbe risolta semplicemente perché l’italiano non dispone di forme grafiche o morfologiche che rappresentino il genere neutro, inesistente nella nostra lingua.
Fra i vari interventi, quello della linguista D’Alessandro, si allinea all’istituzione affermando che:
«È sbagliato pensare che si tratti di un cambiamento in atto, si tratta di educazione linguistica, esattamente come quella che ci indica di segnare l’accento sulla è. L’accento sulla è, così come lo schwa, non sono parte della lingua: sono convenzioni ortografiche. Sbagliatissimo considerarle parte della lingua. La lingua è parlata e decisa dall’uso dei parlanti».
Ovviamente sui social si sono moltiplicati i commenti di chi ha visto la sentenza dell’Accademia come un affronto ai diritti lgbt (come d’altronde qualsiasi altra opinione divergente dalla loro), la risposta però alle critiche verso la mancata introduzione del genere neutro per fortuna non si è fatta attendere. In questo caso lo schwa è stato definito più che altro come un “trauma linguistico”, un cambiamento radicale e di troppo impatto sull’attuale italiano che non sarebbe ancora pronto ad accoglierlo.
Anche perché parlare di cambiamento nel caso delle lingue è inevitabile, essendo questo una caratteristica necessaria alla loro sopravvivenza (ma ci arriveremo). Inoltre, rifiutare a priori un cambiamento solo in quanto tale, è solo un sintomo di immobilismo intellettuale.
Non serve spiegare quanto questo decantato rinnovamento sia l’ennesimo capriccio di una minoranza che si commenta da sé nel sentirsi esclusa e discriminata dalla sola esistenza di qualche parola. La questione diventa dunque quando si può parlare di cambiamento linguistico e quando invece di censura nuda e cruda, spacciata per il primo.
Partiamo dal presupposto che la realtà descrive la lingua e non il contrario. Il linguaggio verbale umano, d’altronde, è nato proprio dall’esigenza di dare un nome univoco alle cose, fattore che ha definitivamente distinto la nostra specie da tutte le altre, rendendo la lingua una capacità unica e specifica (secondo alcune teorie addirittura innata) del genere umano. Uno strumento ben più importante e rivoluzionario di qualsiasi tecnica o scienza, che si conferma inoltre come uno dei baluardi dell’identità di un popolo, e come uno dei tratti più distintivi in cui esso si può riconoscere.
A cosa dovrebbe corrispondere quindi questo schwa in italiano, verrebbe legittimamente da chiedersi. A un genere neutro, indefinito, anonimo, né maschile né femminile: dunque una condizione non compatibile con l’esistenza dell’essere umano. Un sesso non specificato non ha niente a che vedere con il concetto di individuo così come lo conosciamo e così com’è possibile. In altre parole, non rappresenta nulla e, di conseguenza, non può esistere.
Stabilito questo, affrontiamo però la questione del cambiamento linguistico in sé, che in realtà non riguarda solo lo schwa, ma anche tutta un’altra vasta gamma di deliri fra desinenze, asterischi e segni d’interpunzione vari.
Una lingua può e deve cambiare. Si la ha morte di una lingua quando quest’ultima perde la sua capacità di rinnovarsi, quindi la sua possibilità di descrivere e di rappresentare la realtà, riprendendo il discorso precedente. I nostri paladini partono proprio da questo dato di fatto per legittimare l’introduzione di questi “traumi linguistici”, sostenendo che non si può fermare l’evoluzione di una lingua se si vuole “andare avanti”.
Ma c’è differenza fra l’evoluzione di una lingua e l’imposizione ideologica di certi canoni, per giunta arbitrari. Al cambiamento linguistico, infatti, rispondono e devono rispondere determinate condizioni che fanno inevitabilmente crollare la tesi spiccia della grammatica inclusiva.
Una prima condizione necessaria è la spontaneità dell’evoluzione linguistica, che si realizza come una conseguenza di importanti cambiamenti sociali, culturali e storici. Fattori che vanno a riflettersi nella lingua, quindi, non è il linguaggio che “accoglie” queste trasformazioni. Il caso dello schwa, al contrario, vuole attuare una condizione (la neutralità del genere) che, ripetiamo, non esiste e non può essere associata al genere umano, non nella nostra lingua almeno. Quindi troncare deliberatamente desinenze o sostituirle con prestiti stranieri non è altro che una vera e propria forzatura. Come può di conseguenza un linguaggio verbale fondare le basi della sua stessa mutilazione? Semplicemente, non può.
Un’altra condizione è lo sviluppo nel corso del tempo del cambiamento linguistico, che non è prevedibile né quantificabile. È invece graduale e non prevede una precisa formula di arrivo, in quanto le nuove forme linguistiche possono subire altre trasformazioni o essere sostituite da altre ancora. Non è possibile “decidere” quali termini far prevalere rispetto ad altri, né stabilire quali siano più “giusti” di altri, soprattutto per fare un favore a chi si sente bullizzato da una desinenza.
L’ultima condizione, forse quella che più sbaraglia i giustificazionismi anti-offensivi, è l’estraneità dei parlanti durante il processo di evoluzione linguistica, di cui sono, come collettività, inconsapevoli. Prima di tutto per la durata estesa del processo, e anche perché il parlante, pur essendone parte integrante e attiva, si adegua passivamente alle nuove forme linguistiche.
Questo si lega a un’altra polemica su cui insistono i democraticissimi, cioè il “disturbo” del parlante nell’apprendere il nuovo linguaggio inclusivo. Disturbo che secondo la loro visione sarebbe nullo o che comunque costituirebbe un sacrificio per il bene comune al quale adempiere volentieri. Eppure, la questione non è il peso dell’adattarsi a nuove convenzioni linguistiche: come già detto è cambiamento solo se il parlante è ignaro della conversione in atto. Ricordiamo le parole iniziali della D’Alessandro: la lingua è determinata dall’uso dei parlanti, quindi non dai parlanti in sé.
Dunque censura ideologica, questo è lo schwa. Così come altri deliri sul femminile e sul maschile e vie di mezzo. Nulla di più, nulla di meno.
Rimane quindi da districare solamente il nodo legato alla presenza del genere neutro in altri sistemi linguistici al di fuori del nostro.
È questa infatti l’ultima, disperata carta che giocano i battaglieri del politicamente corretto: il riferimento ad altre lingue oltre all’italiano che includono il genere neutro nel loro sistema strutturale. Della serie, loro ce l’hanno, perché noi no? Come se fosse una tendenza dell’ultimo momento avere quella lettera nel proprio alfabeto o quella categoria grammaticale nella propria lingua. Ignorando, poi, che la presenza del neutro nelle altre lingue non sia certo data dall’empatia per i non-binari, quanto più per risponde al concetto di non vivo, astratto, inanimato, vuoto e impersonale.
Se loro sono felici di identificarsi in questo noi allora lo siamo per loro, anche se preferiamo incarnare ben altro.
Commenti recenti