Di Enrico

Volendo riassumere molto, possiamo asserire che esistono fondamentalmente tre tipi di film di guerra: i film pacifisti contro la guerra, i film sulla “guerra giusta” e infine i film di glorificazione della guerra o propagandistici. In ogni caso, per quanti tentativi di catalogazione un cinefilo possa tentare di fare, egli non riuscirà mai a catalogare definitivamente Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick. Questi infatti non rientra in nessuna di queste tre categorie. Se proprio volessimo categorizzarlo, dovremmo in effetti inserirlo in una categoria tutta sua e tale gruppo si chiamerebbe “autopsie fredde e gelide”. Il film non vuole infatti dare giudizi morali o mettere l’uno o l’altro personaggio in una buona o cattiva luce; Full Metal Jacket è una “lucida e fredda autopsia” proprio perché si limita a raccontare con precisione chirurgica i fatti, punto e stop.

Il regista (e il film di conseguenza) è talmente super partes, da non fornirci alcuna informazione sui singoli personaggi e il loro trascorso prima dei fatti narrati, anzi del protagonista, il soldato Joker, non sappiamo neppure il nome (o meglio non ci viene detto direttamente, lo sappiamo tramite il nome scritto sulla maglietta del campo di addestramento dei Marines). È come se si partisse da una perfetta tabula rasa, come quella descritta da San Tommaso d’Aquino (che la riprende da Aristotele) nella Summa Theologiae, secondo cui l’intelletto umano è come una tavoletta raschiata, su cui nulla è scritto; lo stesso avviene per la conoscenza che lo spettatore ha dei personaggi, parte cioè da zero. Pur non avendo la prova concreta del fatto che Kubrick si sia ispirato consapevolmente al grande filosofo cristiano, questa “teoria della conoscenza” viene ripresa nell’iconico incipit del film, nel quale tutte le reclute vengono appunto rapate a zero e vengono rese così una massa anonima, tenuta insieme e omologata, oltre che dal taglio di capelli e dall’uniforme, dalla recita in coro del  “credo del fuciliere” e di slogan al limite del nonsense (ad esempio quando compiono più volte il giro della camerata ripetendo spasmodicamente «con lui ammazziamo e con questo chiaviam»  indicando prima il fucile e poi il proprio organo genitale).

Questo però non è il solo aspetto filosofico del film; il capolavoro di Kubrick fa più volte riferimento (in maniera più o meno esplicita) alla “teoria della dualità dell’uomo”, formulata dal filosofo e psicanalista svizzero Carl Gustav Jung. Questa teoria emerge molto chiaramente nella scena in cui il Soldato Joker viene interrogato da un suo superiore sulla compatibilità del suo distintivo col simbolo della pace con la scritta sull’elmetto che recita “BORN TO KILL”, ossia “nato per uccidere”. E Joker risponde dicendo che intendeva far riferimento proprio alla teoria junghiana della dualità dell’uomo. Secondo Jung, infatti, l’uomo è caratterizzato da una parte di luce e da una parte di ombra (corrispondenti a bene e male, positivo e negativo), che però sono complementari, non separabili l’una dall’altra. L’ombra è qualcosa che esiste infatti solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha ombra (questa parte ricorda a tratti la teoria degli opposti di Eraclito, per cui ogni cosa o qualità esiste per contrasto con il suo opposto).

Inoltre, l’ombra è vicina all’uomo e ne nasconde l’inaccettabile; l’ombra, l’immagine proiettata sul muro, che insegue l’uomo anche quando si allontana, è uguale per quanto concerne la forma ma opposta nei movimenti e direzione. Questo dualismo rappresenta anche il rapporto di reciproca interazione che la coscienza individuale ha con l’Io. Infatti, soprattutto nella seconda parte del film,  il Soldato Joker parla proprio di questo; l’uomo è sia civilizzato che selvaggio, è tanto nobile quanto degenerato, è allo stesso tempo gentile e crudele.

Anche lui scopre di avere in sé stesso questa duplice natura nel corso del film. Possiamo dire che il protagonista accetta questa dualità insita nell’essere umano, quando si ritrova a dover sparare ad una giovanissima donna che ha appena ucciso come cecchino dei commilitoni di Joker. Egli, infatti, non molto tempo prima aveva posto la seguente domanda ad un mitragliere di un elicottero: “come puoi sparare a donne e bambini?”. E quando Joker dovrà sparare alla giovane ragazza troverà la risposta a questa domanda che lo perseguita proprio nella teoria di Jung sulla dualità dell’uomo.

E c’è chi lo ha preparato a questa sorta di momento catartico; il tremendo Sergente Maggiore Hartman. Egli ha il ruolo di un maestro, di un padre, che pur nella sua durezza vuole preparare il protagonista e le altre reclute al momento della verità, ovvero quando dovranno togliere la vita ad un altro essere umano (e, da questo punto di vista, appare comprensibile il trattamento che Hartman riserva al soldato Palla di Lardo). L’atto di dare la morte rappresenta il raggiungimento della verità tramite il procedimento dialettico tra la propria coscienza individuale e l’Io, poiché si tratta (detto brutalmente) di “dimostrare di che pasta si è fatti”, come del resto aveva profetizzato il sergente Hartman nella prima parte del film: “Il fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra quello che uccide”.

Il tema della dualità ritorna persino nella struttura stessa del film. Come in altri film di Kubrick (ad esempio, Barry Lyndon e Arancia Meccanica), c’è sempre un momento fondamentale che divide l’opera in due parti, in un prima e un dopo.

In Barry Lyndon è il matrimonio di Redmond Barry con la nobile Lady Lyndon, che consacra il protagonista a membro dell’alta società e pone fine alla sua ascesa sociale dando inizio quindi alla sua caduta. In Arancia Meccanica è il “trattamento Ludovico” subito da Alex, che spacca in due il film. In Full Metal Jacket invece, la spaccatura avviene con la morte del sergente Hartman per mano dell’esasperato Palla di Lardo, ormai in preda alla follia. Questo momento è per entrambi il culmine dell’evoluzione seppur con una sostanziale differenza; per Palla di Lardo è una sorta di momento liberatorio e catartico, per Hartman l’unica soluzione possibile. Come se il maestro dovesse morire per lasciare che l’allievo possa camminare con le sue gambe.

Il film si conclude con la piena accettazione da parte del Soldato Joker del limite umano dato dalla dualità, di cui abbiamo parlato sino ad ora. È riuscito a soddisfare i suoi due desideri in contrasto tra loro e dettati dalla dualità umana; il desiderio di prendere parte alla guerra e allo stesso tempo di uscirne il prima possibile.

Lo ammette lui stesso, nella famosa scena in cui i marines lasciano il campo di battaglia cantando la celeberrima “Marcia di Topolino”, con queste parole: «Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo. Certo sono vivo in un mondo di merda, questo sì. Ma sono vivo e non ho più paura».