Di Moro
Il mare ha sempre avuto un’importanza cruciale nello sviluppo delle civiltà umane, attraverso di esso popoli lontanissimi tra loro hanno potuto entrare in contatto e commerciare. Come italiani di questo ne siamo sempre stati più che consapevoli: il “mare nostro” è stato per noi un’occasione di beneficiare per secoli quello spazio dove le più importanti civiltà della storia si sono potute incontrare.
Se tuttavia però il mare può rilevarsi un’occasione di incontro e interscambio tra civiltà, è anche vero che il suo dominio va conquistato con la potenza militare ed economica. Da Roma all’Impero Britannico, ad una fiorente cultura marittima si è sempre affiancato un senso di potenza indispensabile per il suo mantenimento. Da qui innumerevoli scontri tra nazioni.
Le moderne potenze non fanno eccezione a questa regola. Se il Mediterraneo ha perso il suo ruolo di principale spazio marittimo dello scenario economico umano è perché questo si è spostato ad est. Al giorno d’oggi, infatti, lo spazio acquatico più trafficato in termini di interscambi commerciali è il Mare Cinese Meridionale, una porzione di oceano pacifico grande 3,5 milioni di chilometri, ovvero una volta e mezzo il nostro mare.
Ivi passano oltre 3.000 miliardi di dollari l’anno, ovvero un terzo del commercio globale. Non è un caso infatti che a nord di questo mare sia situata la Repubblica Popolare Cinese. 7 dei 10 porti più trafficati al mondo si trovano nel Regno di Mezzo, con Shanghai che nel 2010 ha superato Singapore in quanto porto più trafficato al mondo.
Come la Roma di due millenni fa, la vita della Cina contemporanea dipende dal mare. Non è un caso che oltre il 75% dei flussi commerciali di Pechino passi per questa porzione di Oceano. Di qui i prodotti industriali “Fatti in Cina” arrivano in Europa, mentre le risorse naturali partono dal Medio Oriente e contribuiscono a sostenere questa enorme potenza produttiva.
Insomma, qualunque tipo di agenda geopolitica il governo di Xi Jinping decida di sostenere, nel Mare Cinese Meridionale si decide se i suoi piani avranno successo o meno, soprattutto dal momento che la nuova Via della Seta prevede anche un programma marittimo più che ambizioso, e promette di sostituire la Cina all’America quale prima potenza mondiale per il 2049, ovvero il centenario della vittoria delle forze maoiste nella guerra civile.
Se quindi pare più che logico che la Cina rivendichi oltre l’80% di questo mare, è anche vero che non uno ma cinque ostacoli si pongono sul suo cammino: Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine e, ultimo ma non meno importante, Taiwan. Se per la Cina il controllo di questo mare è vitale, esso si dimostra importante anche per gli altri attori presenti nell’area.
Da questo punto di vista si contrappone alla Cina una galassia tanto frammentata quanto motivata di avversari che effettivamente possono rallentare le ambizioni cinesi, contando anche il fatto che Pechino ha tutt’ora un conto in sospeso con altre nazioni che sarebbero più che liete di sostenere un’alleanza in chiave anti-cinese.
Il Giappone, l’Australia, l’India e gli Stati Uniti sono le potenze che costituiscono il Quad, l’Otan asiatica, e che insieme alla Corea del Sud promettono di sostenere un fronte di resistenza “all’espansionismo cinese”. Contando soprattutto il fatto che la possibile vittoria di Pechino porterebbe sotto il suo emisfero non solo sicurezza commerciale, ma anche un numero spropositato di risorse naturali presenti in questo mare.
Fonti cinesi sostengono che sotto i fondali oceanici siano presenti 500 TCF (trilioni di piedi cubici) di gas naturali e oltre 125 miliardi di barili di petrolio. Le fonti statunitensi stimano che ne siano presenti meno della metà, in ogni caso il controllo su queste risorse non potrebbe che fare comodo ad una Cina che nel 2019 ha consumato appena 11 TCF di gas e 5 miliardi di barili di petrolio. In fondo, già la celebre azienda malesiana Petronas ha fatto la sua ricchezza grazie agli idrocarburi di queste acque.
Come se non bastassero le risorse naturali, il Mare Cinese Meridionale è cruciale anche per un’altra delle sue ricchezze: il pesce. Con oltre il 50% dei pescherecci a livello globale, Pechino vi fa affidamento per il 41% del suo consumo, che nel 2018 ha raggiunto l’esorbitante cifra di 28 milioni di tonnellate.
A confronto, i contendenti del Dragone talvolta ne dipendono in percentuale anche maggiore ma per quantitativi molto inferiori. Il Vietnam si procura qui il 79% del suo pesce, per un bisogno di appena 2,5 milioni di tonnellate. Arriviamo anche all’85% per quanto concerne la Malesia, ma per una richiesta di appena un milione di tonnellate
Comprendiamo quindi come oltre al commercio e alle risorse naturali, in ballo ci sia anche la sicurezza alimentare di oltre un miliardo e mezzo di persone. A motivare ulteriormente i contendenti vi è tuttavia anche una ragione di sicurezza strategica e militare. Il suo controllo permetterebbe infatti a Pechino di rompere l’accerchiamento dei suoi avversari e a Washington di rafforzare quella sempre più pressante “cortina di ferro” posta a est del Dragone.
Il Mare Cinese Meridionale è non a caso frequentato dall’imponente Settima Flotta degli Stati Uniti, che con le sue oltre 60 imbarcazioni si rileva essere la più imponente delle forze navali poste sotto il controllo del Pentagono. Allo stato attuale Washington vede in queste acque un passaggio obbligato per Oceano Pacifico da quello Indiano, nonché una posizione estremamente rilevante per tenere sott’occhio la marina cinese.
D’altra parte, a Pechino il fascicolo sul Mare Cinese Meridionale offre vantaggi inversamente proporzionali. Il controllo di queste acque gli permetterebbe infatti non solo di fare breccia nello schieramento avversario, ma anche di garantire uno spazio di manovra lontano dai rilevatori avversari alle flotte in partenza dall’Isola di Hainan.
Una questione anche di furtività quindi, tuttavia non solo per quanto riguarda gli spostamenti di “barchini e barconi”. Gli arcipelaghi di questo mare offrono anche un nascondiglio per navi, aerei e missili. Questo aspetto diventa centrale se si considerano le tensioni tra Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina (Taiwan) nel Mare Cinese Orientale. Pechino infatti considera Taipei come una provincia separatista e la sua volontà di annetterla non esclude per il futuro un contenzioso militare.
Considerando questa prospettiva, chi controlla gli arcipelaghi del sud ha un vantaggio tattico immediato. Per la Cina significherebbe la copertura totale del lato meridionale del suo schieramento. Gli americani e i loro alleati avrebbero uno svantaggio logistico incolmabile che gli impedirebbe qualsiasi movimento in questa porzione di oceano. Qui vi sarebbero rilevatori, aeroporti, porti e basi missilistiche che renderebbero queste acque un campo minato.
Allo stesso modo, il controllo di questo mare permetterebbe di offrire una minaccia missilistica diretta. La Cina esporrebbe la sua costa meridionale, che con le sue basi e le sue metropoli è di vitale importanza per il fronte economico e per quello militare. L’America esporrebbe invece i suoi alleati e le sue basi nell’area.
Comprendiamo quindi tutta l’enfasi che le diplomazie cinesi e anti-cinesi mettono in questo fascicolo. Capiamo perché Trump prima e Biden ora stiano puntando tanto nel combattere “l’impero marittimo cinese” e pure perché anche noi, gli alleati europei degli Stati Uniti, siamo così energeticamente chiamati in causa in quella che si configura come la “guerra punica del ventunesimo secolo”. Quelli che sfuggono ora sono quindi gli aspetti pratici della questione.
La questione ruota intorno a due arcipelaghi formati da niente più che da rocce e talvolta qualche isoletta artificiale. Il primo di questi si trova a sud-est dell’isola cinese di Hainan. Le isole Paracelso sono state in passato occupate da Francia e Giappone, prima che la Dichiarazione del Cairo del 1943 stabilisse che dopo la guerra esse sarebbero tornate alla Repubblica di Cina (oggi in esilio a Taiwan).
L’arcipelago è tutt’ora rivendicato dalla Repubblica Popolare Cinese, dalla Repubblica di Cina (Taiwan) e dal Vietnam. Pechino controlla di fatto il territorio dal 1974, ovvero da quando le forze armate dell’oggi scomparso Vietnam del Sud sono state espulse dalle controparti cinesi nella Battaglia delle Isole Paracelso. Oggi l’arcipelago svolge perfettamente il ruolo a lui designato da Pechino. Esso garantisce un passaggio sicuro alle navi in uscita dall’Hainan.
Ben più complessa è la situazione che caratterizza le Isole Spratly, poste poco a nord della Malesia e a ovest delle Filippine. Il Vietnam controlla un numero relativamente maggiore di isole rispetto agli altri contendenti, mentre la Cina – entrata a pieno titolo solo nel nuovo millennio – sta intensificando la sua presenza nell’area con l’edificazione di isole artificiali. Sotto la Malesia e le Filippine si pone quindi un numero meno rilevante di isole, mentre Taiwan e il Brunei fanno presenza con un paio di scogliere ciascuno.
In quest’area è interessante il fenomeno delle isole artificiali. Talvolta queste sono state edificate su postazioni di fortuna, come nel caso delle Filippine, che controllano un contingente di 12 soldati posti su un relitto della seconda guerra mondiale. Altre volte, vi sono stati trasportati cemento e sabbia che hanno dato vita a vere e proprie basi militari. È il caso della Repubblica Popolare Cinese e del Vietnam.
Pechino, nello specifico, è stata la più abile nello sfruttare questo metodo. Esso rappresenta una scappatoia alle leggi internazionali sul diritto del mare e permette inoltre di valorizzare degli spazi altrimenti difficilmente sfruttabili. Da questo punto di vista la base di Fiery Cross Reef è il fiore all’occhiello di questo schieramento. Su questo atollo, come sul resto delle isole artificiali cinesi sono presenti strutture come ospedali, porti ed aeroporti che consentono al personale di soggiornare in comodità anche per anni.
La Cina usa i 7 avamposti a sua disposizione per imporre la sua presenza militare nell’area. Questi, oltre a ospitare navi e sottomarini, nascondono missili e ospitano rilevatori perfettamente in grado di monitorare le attività degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Le 10 scogliere controllate da Pechino le consentono inoltre di operare una discreta prova di forza, con esercitazioni militari che, sebbene svolte con piccole imbarcazioni, fanno sentire la sempre maggiore pressione di una Cina in espansione.
Che le rivendicazioni delle parti siano legittime o meno è oramai un problema sempre più rilevante in un mondo multipolare dove Cina e Stati Uniti promettono nuove tensioni ogni mese che passa. L’Onu ha sorvolato sulla questione definendo gli arcipelaghi degli scogli, non delle isole, annuendo al fatto che non potessero essere rivendicati e che non potessero costituire la base di acque territoriali e zone economiche esclusive.
Fatto sta che la questione è destinata a diventare sempre più rilevante nelle agende geopolitiche del futuro. Diversi tentativi multilaterali di instaurare processi diplomatici hanno semplicemente dato alle parti l’occasione di porre la questione sempre più sul lungo periodo, con la Cina che oramai è sempre più intenzionata a rimuovere qualsiasi ostacolo la separi dal ruolo di superpotenza dominante.
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