Di Bianca

L’obesità è uno dei temi su cui ci si è più scontrati negli ultimi anni, in particolare per quanto riguarda l’impatto sociale e quello sulla salute. Si tratta però di un argomento su cui (in linea di massima) si interviene in base a due sole prospettive, opposte fra loro ed entrambe sbagliate, in quanto affrontano il tema senza giungere a una concezione realistica e accettata (o accettabile) dell’obesità. Va sottolineato che si andrà ad analizzare l’obesità non considerandola dal punto di vista medico, in quanto logicamente non contestabile, ma dalla percezione sociale che si ha di essa.

La prima prospettiva è quella del giustificazionismo incondizionato a favore dello stato di obesità dell’individuo, facendo leva sul suo disagio e attribuendolo non alla sua condizione ma alla tendenza altrui a fargliela notare (in modi più o meno accettabili). Un atteggiamento che da compassione spassionata passa all’attacco sistemico contro chi esprime dei gusti personali che si rivolgono ad altri tipi di fisionomia; questo sia con la pretesa di instaurare una nuova concezione di bellezza, sia con la presunzione di screditare gli studi che dimostrano che l’obesità (o comunque un numero eccessivo di chili) costituisce un rischio per la salute. Una visione che si aggrappa inevitabilmente al qualunquismo sterile del “E a te che ti frega?”, per la quale un’opinione scostante viene ridotta alla pretesa di decidere sulla vita altrui. Ne sappiamo qualcosa specialmente in questo periodo dell’anno, con le battagliere curvy che ci ricordano continuamente che non esiste il fisico da spiaggia, voluto dai crudeli standard di bellezza discriminatori, ma che volendo si può anche portare con orgoglio qualche taglia in meno; arrivando persino a sostenere che un corpo allenato e tonico è sintomo di insicurezza e di sottomissione alla società e ai pareri altrui.

Dall’altra parte invece si trova una concezione dell’obesità che lega il valore dell’individuo alla sua sola immagine, dalla quale poi vengono superficialmente dedotti anche le capacità e il merito della persona. Per quanto questa visione possa sembrare “controcorrente” da chi prende le distanze da posizioni pro smagliature, in realtà rientra nella religione dell’apparenza che ormai sta avvelenando ogni momento della nostra vita, dalla colazione alla mattina al parto, dalla mansione sul posto di lavoro al matrimonio; dove ogni cosa viene spettacolarizzata per essere esteticamente affine al feed del profilo. E di tutto questo la propria immagine fisica è solo la manifestazione più quotidiana e tangibile, che viene inevitabilmente integrata da questo processo.

Entrambe queste visioni sono errate a partire dal punto centrale della questione, che non riguarda l’obesità in sé ma lo stile di vita o, più precisamente, la mente che ha compiuto (o non compiuto) determinate azioni che hanno poi portato a un corpo in sovrappeso. Quando la salute del corpo dipende dall’autotutela, il primo reale aspetto su cui concentrarsi e intervenire è la mente dell’individuo, e dopo di essa giunge la condizione fisica. Essenzialmente il dibattito sull’accettabilità dell’obesità è stagnante sulle sole conseguenze: nell’idea appena citata si analizza una condizione e non le cause che l’hanno determinata, mentre l’altra tende a dare a queste ultime troppa importanza, tanto da giustificare o anche difendere l’obesità.

Che dire poi dello stile di vita a cui siamo “costretti” da un anno e mezzo? Fra chiusure infinite e riaperture limitate a intermittenza, la comodità è diventata la vera malattia. Istruzione a distanza, lavoro a distanza, shopping a distanza, consegna del cibo direttamente a casa, non c’è da stupirsi che il fisico risenta di questa alienazione dal benessere. Mesi fa con palestre sbarrate e ingresso vietato nei parchi con attrezzi ginnici, è stata completamente negata ogni forma di svago e sfogo fisico, concedendo come alternativa l’allenamento con le bottiglie o fare pesi sollevando il cane dentro quattro mura. Basta poco tempo perché le abitudini sane, anche le più salde, vengano messe in discussione. E si sa che riacquistarle una volta perse richiede una certa volontà, magari annullata definitivamente dalla paura dei contagi in palestra o nei parchi.

Nel paradosso assurdo del “vivere da malati per morire sani”, il senso di sicurezza ha soppiantato la reale salute, costringendoci di fatto a rinunciare alla seconda per il primo. E se la sicurezza deve forzatamente rispondere a percentuali di contagi, numeri di letti nelle terapie intensive, cifre di tamponi positivi e non, la salute diventa invece un’opinione che si fonda sulla sola percezione individuale, e la concezione di salute “ufficiale” e scientificamente dimostrata viene vista come frutto di un diabolico piano del patriarcato e della società tossica che ci vuole tutti anoressici.

Per comprendere meglio la questione, proviamo a immedesimarci in una persona sovrappeso o obesa. Veniamo screditati e sottovalutati per il nostro fisico, se non addirittura insultati più o meno abitualmente. Il danno non è tanto il giudizio in sé (come vuol far credere l’atteggiamento imperante del “sono discriminato perché sono me stesso”), ma il fatto che questo, incrinando le nostre capacità di relazionarci con gli altri, limita (fino ad annullare) le nostre possibilità di dimostrare il nostro valore in altri contesti dove il fisico non c’entra nulla. Magari per porre fine a questa situazione ci convinciamo a cambiare la nostra condizione e a perdere peso. Dimagrire e seguire uno stile di vita sano non è facile, né scontato o immediato; ed è comprensibile quanto possa essere arduo stravolgere le nostre abitudini alimentari aggiungendo un’attività fisica alla quale il corpo non è più abituato, o abituato non lo è stato mai. Uno sforzo che richiede grande forza di volontà e costanza, e che ripaga sì, ma a lungo termine; e magari battutine e insulti non mancano di farsi sentire durante il percorso.

Dalla parte opposta, però, troviamo apparentemente delle buone anime che sembrano caritatevoli, compassionevoli, comprensive, che capiscono il nostro disagio e vogliono che ce ne liberiamo. Bastano un paio di slogan, che diventano poi mantra, a convincerci che in fondo 200 chili non sono un pericolo per la salute, che mangiare carboidrati e grassi fino a scoppiare non è indice di un’alimentazione sbagliata, che l’attività fisica pari a zero non compromette il nostro benessere, che siamo belli così come siamo e di accettare le nostre curve. Sono gli altri, crudeli e insensibili, che godono nel farci sentire sbagliati e il loro obiettivo fisso è impedirci di amare il nostro corpo, perché sono brutti e cattivi. Dottori e nutrizionisti inclusi.

In conclusione, secondo questi ultras del corpo sovrappeso, se ci avviciniamo al percorso di perdita di peso non è per migliorarci, per prenderci cura di noi stessi o per realizzarci, ma su spinta delle opinioni altrui e su una necessità di compiacere certi canoni estetici per la nostra mera apparenza, pensando erroneamente di realizzarci con la sola forma fisica (cosa ben diversa dal mantenerla con consapevolezza e per piacere personale). Oppure al contrario, siamo tentati di abbandonare questo percorso (o di non iniziarlo affatto) perché altri nella nostra stessa condizione non si fanno piegare dal sistema grassofobico e non si fanno fregare dalle malefiche politiche dei magri.

E poi, è la via più facile: perché intraprendere una strada di sacrificio, fatica e rinunce quando possiamo nasconderci dietro a un paio di frasi fatte e alla frigna di essere discriminati?

Si aggiunge un altro tema, quello dell’essere “accettati”, che costringe a una scelta: essere accettati (forzatamente) da noi stessi o dagli altri? Accettare le nostre imperfezioni (senza però valorizzare altro) o sottostare all’opinione dei cattivoni che si azzardano a esporre un concetto di salute in cui non rientriamo? Ci sentiamo tagliati fuori, offesi e vilipesi, vogliamo che tutti accettino il nostro disagio come lo accettiamo noi. Vince ancora una volta l’individualismo sfrenato che soffoca ogni conciliazione fra singolo individuo e gli altri soggetti, smantellando dalla base il più basico concetto di comunità. In fondo un punto in comune queste due concezioni dell’obesità ce l’hanno: l’identificazione dell’identità con la sola apparenza, sui social o fuori dai social. L’obesità può diventare motivo di vergogna assoluta che sfocia addirittura nella legittimazione del bullismo, oppure al contrario può costituire un tratto di unicità o perfino di originalità, dove il “diverso” si distingue dalla massa in salute e attenta alla propria presenza.

Dunque, che pensare? Il riconoscimento del disagio che può derivare dal proprio aspetto fisico è il primo passo per porvi rimedio, cercando di eliminare non questo disagio, ma la fonte di quest’ultimo: la forma fisica stessa, quindi, che rimane la questione principale. Se si punta alla sola accettazione passiva del proprio corpo, il disagio viene sostituito da un’altra concezione di sé che però non cambia il proprio fisico né lo migliora, ma al contrario lo fossilizza in una condizione tutt’altro che salutare, e il problema non solo non viene risolto alla radice, ma non viene risolto affatto.

Tanto che basteranno un paio di commenti denigratori o anche solo una battuta innocente a farci sprofondare di nuovo, fra la consapevolezza di avere un problema e l’astio nei confronti di chi ce lo fa notare, a prescindere dal modo con cui lo fa.

Non bisogna normalizzare la cellulite, le smagliature, i rotoli di grasso o un peso eccessivo sulla bilancia, ma il disagio di non sentirsi bene nel proprio corpo (che è legittimo), per riconoscerlo e da lì intraprendere un miglioramento, passando quindi alla consapevolezza e alla volontà di poter fare qualcosa.