Di Michele
Il Ddl Zan non è ancora stato approvato e ha già rotto il cazzo. Tra toni patetici e sensazionalismo mediatico, il dibattito che è scaturito dalla proposta di legge contro l’omotransfobia ha messo in mostra alcune delle peggiori idiosincrasie della nostra società. Ma non siamo qui a parlare di come le dirette dei Ferragnez siano una spettacolarizzazione della politica che rappresenta un nuovo populismo di sistema, o di quanto sia stata una bassezza etica e culturale strumentalizzare la morte di un personaggio nazional-popolare come la Carrà.
Al contrario, cerchiamo di prendere distanza e guadagnare un angolo prospettico diverso. Anche al di là dell’intento della legge, che è quello di introdurre nuove categorie di reati d’opinione ed è quindi un intento formalmente censorio, il Ddl Zan è criticabile perché si basa su contraddizioni insanabili. Queste contraddizioni riportano tutte allo stesso problema, quello del rapporto di impossibilità che il pensiero progressista instaura con l’altro.
Andiamo con ordine: la politica contemporanea ha ridefinito il senso della democrazia, passando dall’idea di rappresentanza della maggioranza a quella di tutela delle minoranze. Ciò non avviene per una volontà particolaristica, né per un autentico pensiero della differenza che vuole difendere quest’ultima. All’orizzonte non abbiamo nessun mondo multi-polare. La tutela delle minoranze si inserisce su un discorso che è tipicamente illuminista e universalista. Detta in maniera filosofica, la differenza che immagina il pensiero progressista quando parla di minoranze è trascendentale e non sostanziale.
Le minoranze sono un fondo che la società deve ancora mobilitare. Sotto questo punto di vista, le minoranze non hanno valore in sé, ma hanno valore solo fintanto che devono essere ancora normalizzate. Possiamo già notare una certa contraddittorietà in questa movenza. Il fine dell’inclusione è quello di una normalizzazione, una volta però che una minoranza diviene normale perde il suo statuto di eccezione e quindi di minoranza.
La normalizzazione delle minoranze crea un altro problema. Il pensiero illuminista da cui segue quello progressista è sì universalista, ma vuole disperatamente essere anti-metafisico. L’esistenza delle minoranze serve per certificare l’esistenza dell’altro, del diverso, dell’empirico.
È il problema che Kant traspone nella teoria della conoscenza. La Critica della ragion pura è il tentativo di salvare allo stesso tempo l’esperienza – intesa come possibilità di aumentare la conoscenza – e le certezze date dal razionalismo. Kant risolve la questione mantenendo fermo non più l’oggetto, ma la relazione tra questo e il soggetto. Il trascendentale kantiano funziona come l’idea di eguaglianza progressista: è una potenzialità falsata. Come nota il filosofo inglese e accelerazionista Nick Land:
“il paradosso dell’illuminismo, dunque, è il tentativo di fondare una relazione stabile con ciò che è radicalmente altro, poiché fintanto che l’altro è immobilizzato in una relazione non è più totalmente altro” N. Land, Kant, capitale e proibizione dell’incesto, in N. Land, Collasso – scritti 1987-1994, Luiss University Press, Roma, 2020, p. 46
Abbiamo visto la cattiva coscienza della relazione tra pensiero progressista e alterità, tuttavia la questione non si ferma qui. Se l’altro si trova prigioniero, l’io non se la passa meglio. Come per una fiammata di ritorno, l’io viene investito dalla parte maggiormente negativa e virulenta di questo passaggio. L’io non solo deve favorire l’altro, ma devo continuamente essere altro. Ciò è possibile solo se nega continuamente sé stesso, se viene meno l’idea stessa di identità ed il suo carattere normativo.
L’io deve perdersi per trovarsi. Deve diventare permeabile, un semplice canale di ricezione. Deve oscurare sé stesso. È l’altro a rappresentare il momento positivo, ciò che dà valore e senso. L’effetto comico di questa auto-mutilazione è che l’altro è solo una proiezione, una falsità, una promessa non mantenuta.
Questo è il muro di contraddizioni contro cui il Ddl Zan sbatte sonoramente. I risvolti pratici di ciò sono molteplici. Prendiamo quello più evidente. Il Ddl Zan è una legge contro le discriminazioni che allo stesso tempo crea discriminazioni. Questa è una prassi abbastanza comune e può essere definita come discriminazione positiva o discriminazione a rovescio. A questo proposito si esprime Taylor:
“alcune delle deviazioni più clamorose (in apparenza) della ‘cecità alle differenze’ sono, per esempio, delle discriminazioni a rovescio che assegnano ai membri di minoranze precedentemente sfavorite certi vantaggi nella competizione per i posti di lavoro o gli incarichi all’università, e questa pratica è stata giustificata con l’argomento che la discriminazione storica ha creato una struttura nella quale i membri dei gruppi sfavoriti si trovano svantaggiati” C. Taylor, La politica del riconoscimento, in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 26
Taylor continua notando l’ambiguità di tali processi. Da una parte si vorrebbe salvare l’universalità dell’uguaglianza, dall’altra si coltiva il bisogno identitario e particolare della differenza. Questa doppiezza è visibile anche nel mondo Lgbt e nell’immagine che vuole dare di sé: allo stesso tempo normalizzante e borghese come buoni padri o madri di famiglia, ma anche provocatorio ed esuberante come liberazione della libido nei pride.
Anche la formulazione dell’identità di genere, che è una delle parti più divisive della legge, ha qualcosa di paradossale. Una volta slegato il genere da qualcosa di certo come il sesso biologico, perde la sua capacità definitoria. Diventa qualcosa di così mobile da essere vuoto. Gli sforzi di trovare categorie sempre nuove e sempre insufficienti per definire questa nuova idea di genere, sono una clamorosa prova di ciò.
Se passiamo dal contenuto alla forma della legge ci ritroviamo ancora addosso i lacci di queste contraddizioni. Partendo da una volontà di emancipare, la legge introduce limitazioni della libertà che non ha la buona coscienza di chiamare tali. Ha bisogno di trovare formulazioni fumose come quella di reati d’odio per colpire quelli che in realtà sono reati d’opinione. Si potrebbe discutere sulla scivolosità del concetto di odio in ambito politico o peggio giuridico. L’odio non è un comportamento, punire l’odio è punire l’intenzionalità.
In definitiva, alla base del Ddl Zan c’è un modo di pensare che crolla su sé stesso nel momento in cui riversa le proprie pretese di autenticità nell’altro. Qui l’altro è solo un fantoccio, è l’ombra di un dio negato e immanentizzato. Che l’altro sia il mondo Lgbt è solo un caso. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Avrebbe potuto essere, ad esempio, un tagliaerba.
Non la sentite questa insopprimibile voglia di difendere i diritti dei tagliaerba?
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