Di Alessia
La crisi sanitaria che l’Italia patisce da ormai un anno è stata in grado di evidenziare ancora una volta, se mai fosse stato necessario, le immense lacune del nostro sistema economico e sociale. Evidenziare, perché in realtà non c’è nulla di nuovo, esse infatti esistono già da tempo, semplicemente si è cercato di non vederle.
In particolare, prendendo in esame il sistema economico produttivo, il totale di imprese fallite solo nel 2020 riveste una percentuale rilevante, si tratta infatti del 7,2%.
Ma è questa crisi, sanitaria e finanziaria, la sola causa di disoccupazione, precarietà di vita e fallimento delle imprese?
La risposta è no. Prendiamo in esame un modello concreto che possa validare la tesi, il Giappone: la Nazione, dopo aver imposto lo stesso lockdown dell’allora governo Conte, ha innestato un massiccio intervento di politica monetaria, vale a dire un’azione di rilancio da parte della Bank Of Japan nel sistema finanziario nazionale attivando il Quantitative Easing illimitato, in sintesi, l’acquisto di titoli pubblici senza limiti, l’aumento di obbligazioni aziendali e quindi di moneta messa in circolo che inevitabilmente significa a sua volta più denaro per la popolazione.
La procedura eseguita è stata dunque in grado di garantire pieno sostegno economico alla popolazione e colmare i problemi finanziari delle imprese, mostrando da subito forti segnali di ripresa.
Per noi invece, allo stato attuale, questi livelli di ripresa sono impossibili da raggiungere.
È doveroso specificare che questi fantomatici ‘livelli del Giappone’ di cui si parla, furono effettivamente raggiunti dall’Italia in un passato ormai parecchio remoto, ovvero prima che venisse svenduta e le nostre società liquidate ai tedeschi e ai cinesi.
Torniamo però al presente: in primo luogo, l’Italia non è in grado di emulare il Giappone, semplicemente perché non è più in possesso di una Banca dello Stato che possa dare origine, dal nulla, a soldi propri. Infatti, come già affrontato in passato, secondo il nostro ordinamento questa è una facoltà che la Nazione non ha più da molto tempo e che compete invece solo alla Banca Centrale Europea.
Quello che si può dedurre da ciò, è che per fronteggiare i bisogni finanziari di un paese è essenziale una politica economica interna efficiente come elemento cardine, capace di contrastare velocemente ed adattarsi a ogni difficoltà a cui essa va in contro.
È quindi la negligenza degli ultimi Governi che si sono susseguiti in questo periodo legato al Covid? causa la crisi economica in Italia?
No, nemmeno, l’assetto istituzionale non ha oggi il potere di intervenire in maniera sostanziale sul piano finanziario, indubbiamente però non hanno nemmeno mai fatto nulla per migliorare questo clima economico già ostile.
La realtà è che in Italia gli imprenditori si trovano con il cappio al collo a prescindere già da diversi anni, infatti per via dell’inadeguatezza del sistema economico nazionale la prima causa di fallimento delle imprese è l’eccessivo indebitamento con il sistema bancario. Questo perché le banche non regalano niente a nessuno ma anzi, esigono sempre più denaro di quanto ne abbiano elargito.
Essendo, però, anche lo stato stesso assoggettato a questo sistema bancario, molto poco di ciò che viene dato è a fondo perso. Infatti, la maggior parte viene poi reclamato tramite il sistema di tassazione, che, se potessero, estenderebbero volentieri anche per l’aria che noi tutti respiriamo.
In Italia, la vera sfida quotidiana per la piccola-media impresa, prima ancora di essere competitivi sul mercato per poter proliferare è riuscire a sostenere tutte le spese per sopravvivere. Questo perché il sistema di verifiche e controlli fiscali è molto differente rispetto a quello degli altri paesi, infatti non sono i controlli a dover dimostrare che l’imprenditore evade le tasse ma è bensì l’imprenditore a dover dimostrare ai controlli la propria innocenza presentando tutta la documentazione necessaria. Ovviamente tutti sanno che il sistema burocratico italiano è estremamente complesso, questo costringe quindi l’imprenditore a dover ricorrere necessariamente ad un commercialista, come se le imposte stesse non fossero già abbastanza onerose sul conto dell’imprenditore.
Se invece la decisione, nell’impossibilità di fare entrambe, è quella di rinunciare a pagare le tasse per dare la precedenza agli stipendi dei collaboratori o portare il pane in tavola, lo Stato sarà costretto a prendere provvedimenti come se avesse davanti il peggiore dei criminali.
Il modus operandi è quello di imporre, oltre il pagamento degli arretrati anche una sanzione su cui ovviamente c’è il ricarico degli interessi (di cosa non ci è dato a sapere). Chiaramente essendo stati impossibilitati a pagare in partenza le imposte sarà ancora più proibitivo sanare la sanzione aggiuntiva ed è così che si arriverà al pignoramento e la svendita a una frazione ridicola del suo valore di ogni bene posseduto. Serve specificare che nemmeno questo basterà a sanare i debiti?
È quindi lo stato stesso a farsi, tramite la macchina fiscale, non più il garante del benessere dei suoi cittadini ma il boia che spinge lo “sgabello” su cui si trovano questi imprenditori con il “cappio al collo” fin dalla nascita.
Così, in meno di quarant’anni siamo passati dal difendere il posto di lavoro con le unghie e con i denti, alla ferma convinzione sia l’assetto politico a poter cambiare le cose. Lo stesso ordine in cui i ministri approvano norme per regolarizzare i migranti braccianti agricoli, legittimando così in via definitiva lo schiavismo del terzo millennio mentre gli onesti imprenditori, imputati già in partenza come frodatori fiscali, falliscono nella miseria e nel silenzio.
È davvero questa la fine riservata a quel “popolo di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”? La scelta è solo nostra ed è ora.
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