Di Bianca
Forse a qualcuno, negli ultimi giorni sarà capitato di sentire o leggere la parola “superetero”, o direttamente il termine inglese “super straigh”. Se, spinto dalla curiosità, avesse deciso poi di andare a informarsi a riguardo, sarà sicuramente stato investito da una sciorinata di allarmanti denunce di: oppressione degli affiliati lgbt da parte di un movimento nazista transfobico, fondato col solo scopo di sterminare i diversamente etero. Facciamo però un po’ di chiarezza per chi invece non fosse a conoscenza dell’accaduto.
Destreggiandosi fra le varie smielate sulla discriminazione dell’identità di genere, troveremo dalle fonti più precise che il termine è stato coniato dall’utente kyleroyce su Tik Tok, mentre spiegava la sua attrazione per donne nate donne ai suoi follower. Nulla più che una legittima preferenza, che però alla massa dei social equivale a un oltraggio intollerabile per chi “non si trova a proprio agio col suo corpo”.
In realtà, capiamo quindi che tutto è nato da una semplice risposta a una domanda sull’orientamento sessuale dell’incriminato, che ironicamente, ha detto di riconoscersi come superetero, inventandosi un’ipotetica nuova identità sessuale per sottolineare il ridicolo della numerosità dei generi ufficialmente riconosciuti. Il termine è stato poi condiviso in massa, tanto che chi vi ha aderito lo riconosce come una sessualità vera e propria e ne reclama l’inserimento appunto nella lista delle infinite identità di genere. Quando poi un utente Twitter ha ripreso le iniziali “SS” (optando per un “font” del secolo scorso facilmente intuibile) e le ha riportate sui colori ufficiali del genere, si è definitivamente scoperchiato il vaso di pandore dimostrando quello che i paladini del politicamente corretto sanno fare meglio: mistificare i fatti per frignare di una discriminazione inesistente.
Nulla di cui stupirsi. Non sorprende, infatti, che gli eroi del politicamente corretto non comprendano o che pur comprendendola disdegnino l’ironia. Chiunque cercando sui social il profilo del “nuovo genere” può constatare l’intento beffardo e frivolo dell’iniziativa, ma tanto è bastato per lanciare la nuova crociata contro l’oppressore etero: kyleroyce venne infatti immediatamente bannato da TikTok. Il fatto paradossale, però, non è tanto la reazione dei tutori della libertà, che di certo non è nuova né insolita, ma quanto delle irrisorie etichette abbiano sottomesso qualsiasi pensiero critico e volontà di differenziazione nei giovani. Siamo al punto in cui essere “differenti” significa essere omologati.
Più che la volontà consapevole e fondativa di adempiere a un determinato ruolo nella società, la spinta dell’autodeterminazione dei giovani si spegne in un’ossessione delle etichette vuota e fine a sé stessa, rivolta a un insieme di categorie prestabilite che riducono l’identità a una sola definizione. Quest’ultima è il sintomo di un essere inerte e anonimo, non esercitato dall’individuo ma attribuito a esso per somiglianza e non sostanza. Tanto che di volontà rimane poco: si parla più che altro di una necessità da soddisfare per colmare un vuoto, uno stimolo che va a compensare il nulla dal quale è nato riconoscendosi in qualcosa, qualsiasi cosa, che è mera e futile apparenza. La deriva dell’essere o meglio, del non-essere, nasce dal rifiuto per la vera realizzazione o dall’ignorarne semplicemente l’esistenza.
Ragazzi abbandonati all’anonimato della massa perché prima di essere privi di un ruolo sono privi di uno scopo, e marcescenti nel disinteresse di averne uno. Un prezzo da pagare che va ben oltre la sola remissività sociale, se si considera che ne va della stessa natura dell’uomo. Il bisogno di riconoscersi come parte integrante di qualcosa, di esserne una componente dinamica anche nella realizzazione della propria identità è una vera e propria necessità umana, funzionale al benessere basilare dell’individuo.
A questo va aggiunta la progressiva e delirante distruzione di qualsiasi elemento rimandi alla cultura occidentale, un riferimento del divenire millenario a cui oggi si vuole sostituire un impulso avverso a tutto ciò che viene bollato come “normale”, e, a detta dei ribelli arcobalenati open borders, discriminante per definizione, in qualsiasi ambito. Quindi, da un’esigenza spasmodica di essere visti come qualcuno (senza esserlo davvero) e da un’adorazione cieca di tutto ciò che è “diverso” deriva un’altra ossessione, quella di essere forzatamente alternativi, differenti, fuori dai canoni e dalle convenzioni comuni; spacciandosi come il futuro, il progresso, il cambiamento, la sovversione incarnata, paradossalmente, nel politically correct. Si è confuso così il diverso con il rivoluzionario, e, appunto, l’essere con l’apparire.
Un bestiario di sembianze, illusioni fragili e ipocrite, in nome di una sbandierata libertà altrettanto debole e soprattutto fasulla. Di fatto l’apparenza risponde a un’ossessione individualista che non considera a priori la visione altrui e rifiuta quindi il confronto con la realtà esterna. L’essere viene formato dall’individuo in relazione all’ambiente circostante in cui egli stesso sceglie di operare, e secondo i valori e i principi che egli sceglie di seguire e mettere in pratica; l’individualismo invece per opporsi ai famosi discriminatori contro i diritti finisce per dipendere ed essere sottomesso da questi ultimi, che si confermano come l’unico riscontro concreto che l’apparenza potrà mai avere in continua ricerca della sua presunta diversità.
Ecco come oggi è possibile che “l’alternativo” cancelli quello che dovrebbe essere, o che lo imprigioni nelle costrizioni di pensiero dell’apparire, rendendolo paradossale. Un uomo che ama una donna o viceversa diventa un’eccezione, un’estremizzazione, un’anomalia: il superetero, appunto. Il Super-Straight, l’SS, l’eretico per eccellenza, nel mondo degli alternativi. Dove però egli si riconosce e non nega il suo essere: è il normale che si oppone al forzatamente alternativo, ed è comprensibile che faccia scandalo.
Un altro segnale si può trovare nella sfera linguistica che sicuramente si colloca fra gli ambiti che più hanno dovuto subire queste follie inquisitorie, a partire dalle mutilazioni con asterischi, X a sentimento e simboli vari non contemplati non solo grammaticalmente, ma anche dalla possibilità umana di pronuncia. Nel delirio del non-essere in cui chiunque può apparire qualsiasi cosa e in qualsiasi momento, si vuole assegnare un’identità anche alla singola parola: non esistendo davvero, l’apparenza può crogiolarsi nella sua sola definizione verbale, astratta, infondata, non riscontrabile nella realtà. Però è la realtà che determina la parola e non viceversa.
La parola descrive la realtà, sì, nel senso che dipende da essa e che deriva da essa. L’importanza della parola nell’ottica viene stravolta e questo ha portato a una lista inquisitoria delle parole “buone” e delle “cattive”, alcune giuste e alcune sbagliate, discriminatorie e non, sessiste e non, lgbt friendly e non. Il solo uso di una parola “proibita” va a condannare l’intero contesto in cui è stata inserita e chi ne ha fatto uso, reo di non essersi conformato alla sistematica sostituzione lessicale della lingua.
Una sostituzione legittimata, ovviamente, perché profetizza l’uguaglianza linguistica, l’inoffensività dei termini coinvolti, l’inclusività dei riferimenti concettuali; lodando un modello tollerante e aperto e rifugiandosi dietro al fatto che la lingua cambia, bisogna adattarsi. I reprobi contro le minoranze saranno presto puniti e prontamente zittiti dalla censura. Anzi, sta già accadendo.
Dunque, il semplice fatto che la lingua si evolva da secoli deve giustificare una sua riorganizzazione a tavolino? No, ovviamente. Una minoranza ha il diritto di sancire i ritmi e le modalità di cambiamento della lingua? A maggior ragione, assolutamente no.
Le lingue, sì, cambiano. Lo fanno da millenni, e continueranno a farlo con o senza le crociate deliranti e spassionate dei paladini dei salotti. È stato riconosciuto dai linguisti che almeno una parte della lingua è in continua evoluzione, e che questo diversificarsi rientra nella necessità di sopravvivenza stessa della lingua come sistema di comunicazione. Però il cambiamento linguistico per essere tale deve primariamente essere spontaneo, che esso comprenda il progressivo passaggio da una lingua all’altra (ad esempio fra latino e volgare), che interessi due termini o due diverse varianti della stessa parola. Tanto che un cambiamento linguistico effettivo e tangibile non venga percepito dai parlanti, che nel corso del tempo si adatteranno da sé alla nuova forma parlata. Quindi la spontaneità e la silenziosità sono elementi caratterizzanti del processo di evoluzione linguistica, che di conseguenza è cosa ben diversa dalle istanze censorie del politicamente corretto, che in realtà non sono altro che un’imposizione volontaria, consapevole e ingiustificata di forme linguistiche che altrimenti non esisterebbero nella comunicazione verbale.
La risposta ovviamente non è ancorarsi all’italiano attuale e difenderlo strenuamente da eventuali futuri mutamenti, che comunque si verificherebbero nonostante eventuali battaglie tragicomiche. Come detto, la lingua riflette la realtà: quindi bisogna, ora più che mai, ri-conquistarla, in una lotta continua, perché “essere” è all’infinito e quindi vivo e dinamico: non può essere statico, né confermato o garantito, perché se lo diventa è già nulla in partenza. E già parlare di “essere” come di un’entità a sé stante o di una verità già data ne firma la condanna a morte. Perché sopravviva è necessario schierarsi su un fronte dell’essere, un confine identitario non inteso come limite ma come linea d’assalto, trincee che sono al tempo stesso difesa e attacco. Perché l’unica vera conquista non viene premiata dall’alto, rifiuta i diritti concessi e pacche sulle spalle. Si fa e basta.
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