Di Marco 

Una delle parole che in questi anni ricorre maggiormente sui titoli dei giornali e al centro del dibattito pubblico è quella di “crisi”. Dalla fine della prima decade di questo terzo millennio, con lo scoppio della Grande Recessione, causata dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti, buona parte dell’attenzione dei mezzi di informazione si focalizza su questa situazione di instabilità. Molti Stati hanno dovuto fronteggiare questa circostanza di incertezza ripensando al loro ruolo all’interno dello scacchiere internazionale. Il significato originario stesso di “crisi” (dal lat. crisis, gr. κρίσις «scelta, decisione»), che anticamente si riferiva alla fase decisiva di una malattia, ovvero quando ancora la prognosi non è sciolta, suggerisce la necessità, in un momento di stallo, di trovare una soluzione per uscire da una situazione di impasse. A tal riguardo è molto interessante analizzare le azioni intraprese dalla Turchia di Erdogan, che ha cercato di superare questa congiuntura, sostenendo un richiamo identitario al proprio passato

A fronte della necessità di ricompattare le forze nazionali per intraprendere un superamento della condizione di marginalità, a cui la Turchia era stata relegata, a causa della presenza degli interessi dei principali paesi occidentali nel contesto geopolitico mediorientale, il Primo Ministro turco Erdogan e il suo ideologo, il Ministro degli Esteri Davutoğlu, hanno rilanciato nel contesto internazionale l’idea neo-ottomana della Turchia convinti che possa far rivivere i fasti di allora, facendole assumere nuovamente il ruolo di potenza regionale e globale.

Proponendosi al mondo musulmano come modello di democrazia, la Turchia prova a scalfire definitivamente la diffidenza del mondo arabo che la percepisce ancora come l’erede del dispotismo caratteristico dell’Impero ottomano. In questo processo ha un ruolo centrale la politica estera turca che, dopo anni di cauto isolamento, ha trovato le proprie linee guida nella dottrina geopolitica di Ahmet Davutoğlu, conosciuta come “profondità strategica”. Una dottrina generata e successivamente applicata in un contesto caratterizzato dal Neo-ottomanesimo ovvero dal richiamo all’ideologia politica ottocentesca conosciuta come ottomanismo.

Quest’ultimo, dopo un lungo letargo obbligato dalla Repubblica kemalista, riemerge sotto una nuova e moderna elaborazione con il nome di neo-ottomanesimo. Una lettura inedita dell’ottomanismo, questa, che mette in relazione in maniera indissolubile politica identitaria e politica estera, ritenendo lo sviluppo di una comune identità turco-ottomana fondamentale per promuovere le ambizioni geopolitiche della Turchia. Il neo-ottomanesimo, tuttavia, non può considerarsi una semplice ideologia, ma piuttosto un modo generale di vivere e pensare la Turchia moderna del presente e del futuro richiamandosi ad un passato glorioso ed ambizioso, ritenuto per decenni scomodo e perdente

Al richiamo all’eredità islamica, il governo turco aggiunge una politica estera che, rifacendosi a quella intrapresa da Özal, per due volte primo ministro negli anni 80’, riflette un maggiore attivismo negli ex-territori dell’Impero in ambito politico, economico e culturale. Un disegno che non è volto a perseguire una nuova fase di imperialismo, quanto piuttosto a un sempre più diffuso uso di soft power nelle ex province ottomane (Balcani, Medio Oriente, Asia Centrale). In quest’ottica si deve comprendere l’enunciazione, dello stesso Davutoğlu, del principio di “zero problemi con i vicini”, che ha portato a sviluppi decisivi nella normalizzazione delle relazioni con Paesi più prossimi alla Turchia. La politica di zero problemi si basa essenzialmente sulla progressiva eliminazione di relazioni impostate in maniera conflittuale con i Paesi confinanti e più in generale con tutti quelli adiacenti alla regione, attraverso la risoluzione pacifica delle controversie e dei possibili fattori di tensione.

La peculiarità della retorica “zero problemi” risiede nel suo forte carattere transnazionale, emerso in tutta la sua forza durante i mesi successivi alle rivolte arabe, che ha consentito alla Turchia di creare relazioni soprattutto con i popoli vicini più che con gli Stati. La tendenza è stata quella di ramificare le relazioni in più ambiti, soprattutto economico e culturale, spesso scavalcando i regimi e le istituzioni, ed andando a creare legami direttamente con la popolazione.

Dall’analisi delle strategie con cui la Turchia di Erdogan sta cercando di ricavarsi una posizione di forza all’interno dello scacchiere geopolitico mediorientale, attraverso una graduale riconciliazione con l’eredità imperiale e un rilancio nel contesto internazionale dell’idea neo-ottomana, è possibile concludere come, ancora oggi, la scelta di una Nazione, di legittimare la propria politica di potenza riallacciandosi al proprio passato, può essere una soluzione vincente per affrontare le sfide che impone l’assumere il ruolo di potenza regionale e globale