Di Bianca
“A dimettersi ci vuole coraggio e responsabilità, è molto più difficile lasciare una poltrona che aggrapparsi alla tenace difesa dello status quo”. È con queste parole che Matteo Renzi accompagna le dimissioni delle due ex ministre Bellanova e Bonetti e di Scalfarotto. Parole che fanno ritornare al fatidico (o così sembrava) 2016, in cui l’ex premier si era espresso in maniera molto simile, anche se l’esito è stato ben diverso.
Tutt’al contrario, le due ministre in questione hanno assistito in religioso silenzio; specie la Bellanova, che dal decreto di agosto avrebbe dovuto garantire i bonus per l’acquisto dei prodotti agricoli locali. Soldi di cui però i ristoratori non hanno ancora visto un centesimo, ma che l’esponente di Italia Viva, poco prima delle sue dimissioni, ha promesso che sarebbero arrivati a fine gennaio, dopo ben cinque mesi di attesa.
Un’altra questione in campo con la Bellanova era la procedura, avviata il mese scorso, volta a riorganizzare il sistema sementiero nazionale con l’introduzione di sementi OGM nel mercato agroalimentare italiano. Decreti respinti, però, da una coalizione di società contadine, associazioni agricole biologiche, ambientalisti e gli stessi agricoltori, con una protesta che potrebbe essere vista come un inaspettato atto di difesa della sovranità (in questo caso, agricola e alimentare) da parte dei cittadini. Il tutto in accordo con la Commissione agricola della Camera, che dopo il voto del 13 gennaio ha confermato come il tentativo della ex-ministra abbia avuto esito fallimentare, almeno per il momento.
Una battaglia, quella fra Italia e OGM, che dura ormai da vent’anni, e che la Bellanova ha da sempre cercato di spuntare. Ma facciamo un passo indietro.
Era il 2018 quando la Corte di Giustizia Europea stabilì che da quel momento tutti gli organismi su cui si sarebbe operato con tecniche di ingegneria genetica sarebbero stati considerati come OGM veri e propri. Anche se la conoscenza comune tende generalmente ad associare i due concetti, in realtà gli OGM sono l’applicazione più conosciuta (e discussa) dell’ingegneria genetica, di cui quindi sono solo una parte. L’ambito agricolo è uno dei rami in cui essa trova migliore e maggiore impiego, e in cui si è affermata progressivamente negli ultimi anni come mai ha fatto nei decenni precedenti. A questo punto, però, sarebbe bene darne una definizione più approfondita.
L’ingegneria genetica è l’insieme delle tecniche che permettono di isolare i geni, di clonarli, di introdurli e, soprattutto, di farli esprimere in un ospite. Quest’ultimo quindi svilupperà delle caratteristiche che in natura non sono contemplate nel suo codice genetico e che non può ricevere tramite un incrocio; l’ingegneria genetica, infatti, supera le barriere naturali fra le varie specie viventi, annullando l’incompatibilità fra queste ultime senza porre limiti sullo scambio e sull’integrazione dei geni, a prescindere dal “donatore” e dall’ospite. Oltre al campo agricolo e agroalimentare, le sue applicazioni sono la promessa per soluzioni all’avanguardia nella medicina e nell’ambiente.
Di conseguenza, gli organismi geneticamente modificati non sono che quegli organismi ospiti “corretti” geneticamente attraverso tecniche di ingegneria genetica, che non solo integrano nuove caratteristiche ma che possono anche silenziare l’espressione di alcuni geni dell’organismo se lo vincolano dal raggiungere l’obiettivo prefissato. E le tanto citate New Breeding Techniques (Nbt) sono l’ultima proposta in campo dell’ingegneria genetica, tanto da essere definite i “nuovi OGM”.
Non che l’incrocio fra specie distinte al fine di ottenerne una terza migliore sia un traguardo degli ultimi, folli anni investiti nel progresso. Tutt’altro: l’uomo pratica questa tecnica da millenni, selezionando le varietà alimentari più resistenti o più nutrienti o incrociandone altre per ottenerle. È chiaro che oggi, con l’avvento delle biotecnologie e di continue scoperte tecnologiche e scientifiche, non ci si affida più alla sola selezione in quanto si ha la possibilità di intervenire direttamente sull’organismo per integrarlo solo con determinati geni perché sviluppi solo le caratteristiche di interesse.
La Bellanova ha cercato quindi, di ridurre la questione al mero piano etico dell’utilizzo degli OGM, ribadendo l’importanza per l’Italia di modernizzarsi e di stare al passo con i Paesi europei, che già da tempo investono copiosamente nelle NBT oltre a vantare un consumo non indifferente di OGM. Perché chiaramente l’Italia ha l’assoluta, sentita e inderogabile necessità di integrarsi coi nuovi modelli alimentari europei, specialmente in questo scenario economico, politico, sociale, pandemico: questa è, ora la vera priorità degli italiani. E la Bellanova con gli esperti rassicurava: non solo saremo più compatibili col mercato alimentare dell’Unione, ma potremo godere dei vantaggi degli OGM, come avere viti e sementi più sani e con più proprietà nutritive, oltre al fatto che richiedono meno pesticidi e quindi diminuiscono l’impatto sull’inquinamento che causa i cambiamenti climatici.
Eppure non è questo il punto della questione. Il punto non riguarda la legittimità degli OGM o meno, né i rapporti buoni o cattivi che li lega all’Italia. Il punto riguarda le conseguenze del loro inserimento nel settore, che avrebbero decretato la fine dell’agricoltura e del mercato gastronomico italiano. L’introduzione di OGM nel sistema sementiero nazionale sarebbe a beneficio esclusivo di un numero estremamente ristretto di industrie del settore e di lobby biotech, che prosperano nel mercato delle risorse alimentari geneticamente modificate. In particolare, sono Bayer, Corteva, ChemChina e BASF le quattro multinazionali di sementi che dominano il mercato e che controllano più della metà delle vendite di semi a livello globale.
Ne sarebbe andata la tipicità, la tradizione e l’identità della produzione agricola italiana, inimitabile e unica al mondo, come confermano anche i dati ufficiali UE che (guarda caso) vedono il patrimonio agricolo dell’Italia come il più importante ed esteso dell’Unione, con un valore di 4,3 miliardi di euro, senza contare quello dato dai marchi DOP e IGP. Un valore che sarebbe stato azzerato dalla politica economica delle aziende sementiere, volta allo sviluppo di una monocultura mondiale, indifferenziata e standardizzata, e improntata a cancellare uno dei tratti identitari delle nazioni: il cibo e l’alimentazione. Una monocultura profeta di un inevitabile appiattimento, sterile di ogni tratto di individualità e complice del processo della globalizzazione.
Un valore, però, quello del nostro patrimonio agricolo, sensibilmente intaccato dalla pandemia. Si sa come il grano di per sé sia una coltura che impoverisce il suolo, e a cui deve seguire una risemina necessaria per il recupero dei terreni. Ma con ristoranti e bar chiusi, i fornitori si sono trovati con le mani legate e buona parte della produzione è andata persa, senza che la gestione della pandemia da parte del governo permettesse la benché minima ripresa del settore. Già condannati dalla produzione in esubero, gli agricoltori italiani avrebbero dovuto fronteggiare un ulteriore oltraggio, dimenticati, ignorati e privati dei loro diritti fondamentali, fra cui si sottolinea lo scambio delle sementi e la risemina, appunto.
E tutto ciò “… in assenza di qualunque analisi di impatto sul sistema agricolo nazionale”, come segnalava l’unità di organizzazioni contadine in protesta. Ma l’analisi non c’è stata perché, semplicemente, non c’era la minima intenzione di svolgerla. Nessun interesse volto alla propria Terra, nel senso stretto e ideologico del termine; né, tantomeno, ai diritti e alle necessità di chi di quella terra ha fatto la propria scelta di vita.
Cara Bellanova: tutto questo da parte tua non ci ha sorpreso. Tante care cose ma non ci mancherai.
(Sempre che per qualche rimpasto del governo non ti ritroveremo sulla poltrona fra un paio d’anni o qualche mese. Chissà.)
Commenti recenti