Di Moro
Giudicato come uno dei capolavori dell’arte dell’animazione, Kung Fu Panda è un film che ha avuto un successo globale, con incassi di oltre 631 milioni di dollari. Ma non è questo il punto, si rileva infatti essere una delle poche pellicole autentiche e prive di quell’atroce morale politicamente corretta che veicola un senso forte di comunità, di giustizia e di valore. Un cartone animato che, come è giusto che facciano le opere per bambini, infonde un senso di bene a priori, ma la cui morale è sempre valida anche per i meno giovani.
La storia di Po, il panda goffo che diventa il Guerriero Dragone, rimanda infatti ad una concezione del mondo che si va perdendo, dove la terra e la comunità costituiscono la base di una società dove la tradizione si protrae in una coesione armonica, quanto gerarchica, che vede alla sua cima una classe meritocratica di guerrieri pronti anche al più estremo sacrificio per difenderla. Tra battaglie ed epiche lotte all’insegna del Kung fu, nei cuori dei buffi animali vi è sempre un’idea di valore intrinseco ed estrinseco della vita e dell’individuo.
È infatti nella Cina tanto cara ad Ezra Pound che si ambienta la trilogia, dove il senso di tradizione guida un popolo millenario attraverso le ere e dove la società vede nel WuShu, – tecnica militare –meglio conosciuto come KungFu, – abilità (marziale) – una tecnica non solo bellica, ma innanzitutto spirituale. L’arte marziale praticata da Po è infatti propria soprattutto della nobiltà guerriera, ma anche, non di meno, di molti degli ordini delle varie fedi presenti in Cina. Come lo Shaolinquan, originario dai monaci buddisti del tempio shaolinsi.
Tutto questo non può che riversarsi in una serie animata dove questa concezione della vita si fonde con la semplice retorica propria dei film per bambini. Nonostante i due seguiti del primo capitolo siano eccessivamente “barocchi” rispetto al predecessore, com’è normale che sia per il cinema odierno, nemmeno in questi gli ideatori non si sono lasciati andare in netflixate come quelle che siamo abituati a vedere. Il punto è sempre rimasto il codice di valori cinese, certo rivisitato per un pubblico occidentale, ma comunque fermo in una retorica che non è estranea al grande pubblico orientale.
Se vogliamo aggiungerci anche un pizzico di misticismo, come non citare il terzo capitolo della serie? Qui Po scopre le sue origini ancestrali e va alla ricerca del villaggio dove la sua stirpe, in fuga, si nasconde vivendo in armonia. Sarà poi proprio presso il suo popolo che il protagonista otterrà la vittoria contro Kai, nemico della sua gente, compiendo così il suo destino. Lato questo che copre nella trilogia un ruolo vitale: Po è il guerriero della profezia, incaricato in virtù della sua volontà da un decreto superiore. Quasi come Enea che a suo tempo dovette, su mandato di Zeus, cercare la terra dei suoi avi.
Po fa questo coltivando il suo Chi, il suo spirito. L’energia interiore che lo renderà talmente puro da trascendere la sua forma terrenaper addentrarsi nel mondo degli spiriti, sconfiggendo il suo nemico e redimendo lo spirito del Maestro Oogway. Concetto che poi si ricollega all’evoliano rimanere in piedi in un mondo di rovine, sicché sarà la purezza e la forza delle anime che credono a restituire al mondo la virtù, così come alla Valle della Pace – la patria di Po – l’armonia.
Bisogna quindi ammetterlo: il film della DreamWorks è un capolavoro anche culturale, oltre che cinematografico. Una vera eccezione per Hollywood. In un contesto simile possiamo veramente paragonare la trilogia all’interno del mercato al suo buffo protagonista, che nella sua semplicità affronta Tai Lung, il malvagio antagonista armato di ambizione, sete di potere e di distruzione, facilmente identificabile con il cinema a marca hollywoodiana.
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