Di Moro
Non c’è verso: per essere liberi bisogna marciare, per essere pari bisogna farlo allineati. Leni Riefenstahl ha incarnato questo spirito 30 anni prima del 1968, in un modo che ancora oggi ha molto da insegnare a certi personaggi imbruttiti che si vedono a sinistra. Tra l’estetica teutonica e una passione sconfinata per le arti, la regista tedesca ha infatti dimostrato il valore intrinseco di una libertà conquistata. Questo in un contesto, come quello della Germania Nazionalsocialista, dove per le donne non era facile fare carriera.
Helene Riefenstahl nacque nel 1902 a Berlino, da una famiglia appartenente al ceto imprenditoriale. Suo padre Alfred fu molto duro circa le sue aspettative per il futuro, l’avrebbe infatti voluta a lavorare nella sua azienda. Si era infatti subito inteso il talento artistico della giovane Leni, ma mentre la madre era per appoggiarlo, il padre non considerava l’arte un mestiere serio. Tuttavia, come può uno scoglio arginare il mare?
Grazie al tacito supporto della madre, la futura regista fu introdotta a 4 anni a tutte le discipline artistiche, dalla pittura al teatro, dalla poesia alla ginnastica, facendo sì che prediligesse la danza.
Naturalmente questa storia non poté che saltare fuori quando a 16 anni si iscrisse ad una scuola di ballo. Il fatto innescò anche una crisi coniugale, che però si risolse per il meglio in un modo molto particolare: il padre, scettico verso il talento della figlia, la iscrisse all’Accademia delle Belle Arti, convinto che ne sarebbe uscita demoralizzata visto il livello delle altre allieve. Leni invece risaltò sopra le compagne, primeggiando in ogni ambito. Da lì fu un’ascesa continua che si concluse solo quando la ragazza prodigio ebbe l’ennesimo infortunio al ginocchio, il quale mise fine alla sua turnée di Praga e all’intera carriera di ballerina.
Il suo difetto articolatorio certo non la fermò, si diede infatti prima alla recitazione, poi alla fotografia e alla cinematografia, ottenendo importanti ingaggi sia come attrice che come regista. Finché non avvenne il fatidico incontro. Dopo aver letto “la Mia Battaglia”, il celebre manifesto ideologico hitleriano, e aver partecipato ad alcuni raduni, Leni ottenne di incontrare Adolf Hitler. Era infatti rimasta colpita dalla sua oratoria, almeno quanto lui dalla sua produzione. Da lì iniziò la carriera per la quale entrerà nella storia: quella di regista ufficiale del Nazionalsocialismo, per raccontare una Germania forte, wagneriana.
Si diceva che chi avesse voluto capire la Germania Nazionalsocialista avrebbe prima dovuto comprendere Wagner. Leni Riefenstahl è stata la regista che ha tradotto in cinematografia lo spirito di quella Germania che attingeva all’etica e all’estetica del compositore tedesco. Lo ha fatto con diverse pellicole, tra le quali “Olympia”, cine-documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, “il Trionfo della Volontà” sul raduno del NSDAP a Norimberga del 1934, o la numerosa attività di corrispondenza dal fronte orientale durante l’Operazione Barbarossa. Una produzione varia volta a diffondere un’idea solare, audace, indoeuropea.
In ogni sua opera non può che emergere un’immagine estetica di individuo, ogni suo soggetto incarna il massimo ideale che vede donne e uomini entrare in simbiosi con la nietzschana volontà di potenza. Un’estetica chenon vede bei visini e corpi distrutti da anoressie e steroidi ma che esalta corpi sani, atletici, puliti, riprendendo quell’ideale di bellezza neoclassico che tocca il suo apice in “Olympia”. La Grecia classica deve rivivere nella moderna concezione di individuo, il quale, come Menelao, non può che essere Kalos kai Aghatos, bello e buono.
Dopo la guerra Leni ricevette molte accuse infamanti che la videro prendere parte a stermini e usare nomadi internati come soggetti cinematografici. Ovviamente fu sempre assolta da ogni accusa e vinse numerose cause per diffamazione. Questo non le impedì di passare diversi mesi agli arresti domiciliari e di vivere per sempre nell’anonimato.
Leni Riefenstahl, come molti altri è stata vittima dell’opera di denazificazione operata dalle potenze alleate e nulla contò se fosse uno dei pilastri della cinematografia, nonché una regista tanto rivoluzionaria quanto geniale.
Morì, infine, di cancro nel 2003, alla veneranda età di 101 anni, dopo aver girato i suoi ultimi due lavori: un documentario sulle meraviglie sottomarine e uno sulla cultura Nuba nel Sudan, pubblicato postumo.
Una biografia che la ritrae una donna forte, atletica, raffinata, geniale che attraverso il suo lavoro si è fatta portatrice di una visione del mondo unica nel suo genere.
Una donna alla quale ispirarsi se veramente si vuole giungere alla completa emancipazione del genere femminile: una donna veramente libera perché capace di marciare e di farlo senza rinnegare i fasti della civiltà europea.
Commenti recenti