di Michele
Agli inizi della letteratura europea si stagliano due libri: l’Iliade e l’Odissea. Il primo è il poema epico per eccellenza, il secondo sembra già annunciare il romanzo. Ma i poemi omerici sono qualcosa di più: sono veri e propri poemi fondativi, testi sacri, non solo della grecità o dell’antichità, quanto di tutta la tradizione dei popoli europei. Non a caso Dominique Venner sosteneva che “agli europei che interrogano su sé stessi e la loro identità i due grandi poemi tendono uno specchio in cui ritrovare il loro vero volto interiore”. Specchio in cui riflettersi e origine da attualizzare, la potenza dell’Iliade e dell’Odissea ci parla attraverso i secoli, rinnovandosi eternamente. In essi si trova già delineato lo stesso tipo umano che ritroveremo in tutta la storia europea, dalle Chanson de Roland a Nelle tempeste d’acciaio. Questo tipo umano è l’uomo di spada, l’eroe.
Che l’eroe sia qualcosa di distinto dall’uomo è un fatto che potrebbe sorprendere gli antichi. Per essi l’eroe non era nient’altro che il compimento di ciò che l’uomo deve essere, in altre parole il suo io più autentico. In una lingua come il latino questi concetti si univano a tal punto che vir – da cui peraltro deriva virtus – significa tanto l’uomo quanto l’eroe.
Cerchiamo di osservare questo tipo umano nel contesto che gli è più proprio, o almeno quello in cui è maggiormente distinguibile, cioè la guerra. Per questo motivo ci dedicheremo in particolar modo all’Iliade piuttosto che all’Odissea. Lo sfondo è quindi quello del conflitto fra Achei e Troiani, nato, com’è noto, dal rapimento di Elena. L’Iliade copre un arco relativamente breve di questo conflitto: cinquantuno giorni che vanno dal litigio fra Achille e Agamennone, e culminano con la morte di Ettore.
In un mondo in cui “in ogni cosa il Destino comanda”, e la guerra ed il conflitto sono una prospettiva naturale “l’essenziale è conservare nelle prove peggiori la stima di sé”. Questa presa di coscienza attiva è ciò che contraddistingue l’eroe. In altre parole, non c’è una visione moralistica o di aperta condanna dell’esistenza. Non c’è una realtà diabolica da redimere attraverso l’intervento divino della provvidenza. Il mondo viene giudicato per quello che è. Ciò che conta è il posizionamento dell’uomo di fronte ad esso. Il dolore che è connaturato all’esistere viene accettato serenamente: “due vasi son piantati sulla soglia di Zeus, / dei doni che dà, dei cattivi uno e l’altro dei buoni”. Questo pessimismo di fondo (che è anche innocenza del divenire, per dirla con Nietzsche) potrebbe condurre alla rassegnazione, al disimpegno, al fatalismo. L’eroe fa semplicemente una scelta diversa, sceglie di accettare tragicamente il destino, di dare prova di sé, di tenere fede al valore ed al coraggio.
Trasposta su un piano diverso, dal rapporto con il mondo a quello con gli uomini, una simile etica dell’affermazione di sé acquisisce una dimensione agonale. Perciò non stupisce che la guerra sia lo sfondo privilegiato dell’agire dell’eroe e il conflitto sia “padre di tutte le cose”. L’altro diventa un momento di quel processo in cui il singolo supera sé stesso per realizzarsi ancora più profondamente. La lotta contro il nemico offre l’occasione per dimostrare la propria virtù, è il suggello di un’etica aristocratica. La guerra diventa la prova suprema, poiché con essa ci si gioca tutto, vita e morte, vittoria e sconfitta, onore e vergogna.
Si instaura così un legame fra i contendenti. Le volontà che si scontrano e che si provano a vicenda rendono possibile il riconoscimento reciproco. I combattenti si scoprono stretti da uno stesso destino, che per certi versi è quello della morte, della tragedia dell’esistenza, ma è anche quello di uno stesso sentire. Non solo gli amici, ma anche i nemici si scoprono accomunati da un’amara reciprocità. È la stessa reciprocità che più tardi verrà codificata nella cavalleria, ma che è già presente per intero in Omero.
Alla morte di Patroclo, Achille giura vendetta sui Troiani, consapevole della morte che lo attende: “anch’io così, se ugual destino m’è preparato / giacerò morto; ma adesso voglio aver nobile gloria”. È questa consapevolezza che dona grandezza ad Achille. Lasciare invendicata la morte dell’amico Patroclo sarebbe un’eventualità ancora peggiore della morte. Per l’eroe ciò equivarrebbe a tradirsi di fronte a sé stesso e di fronte agli altri. A nulla varrebbe vivere se di quella vita non si è all’altezza, se si è venuti meno al proprio valore. Così come nota sempre Venner: “l’evocazione ripetuta di questa morte dona certamente al poema la sua dimensione tragica, garantendo alla figura di Achille la propria esemplarità. Tra la felicità tranquilla di un’esistenza oscura e la luminosità di una vita breve e gloriosa, l’eroe ha scelto, inviando un segnale agli uomini del futuro”.
Arriviamo infine al culmine della narrazione dell’Iliade, al duello fra Ettore e Achille. Quest’ultimo ha già fatto strage dei Troiani, i quali si sono rintanati nella città. Ettore è rimasto fuori le mura e attende Achille. Nulla gli impedisce di entrare nella rocca e mettersi in salvo. Ma qualcosa gli preme il cuore. Quando il giorno precedente Achille minacciava di tornare a combattere, non ha ritirato l’esercito, contando di poter continuare l’assalto alle navi:
ora che ho rovinato l’esercito col mio folle errore,
ho vergogna dei Teucri e delle Troiane lunghe pepli,
non abbia a dire qualcuno più vile di me:
«Ettore ha rovinato l’esercito fidando nelle sue forze»
Sa di essersi macchiato di una grave colpa e vuole espiarla. Similmente ad Achille, il quale prova rimorso per non aver difeso Patroclo. Ettore è consapevole di essere inferiore ad Achille. Ancora una volta emerge una dimensione tragica del destino, ma Ettore non se ne cura e si affida al proprio valore: “meglio scagliarsi di nuovo nella lotta al più presto: / vediamo a chi dei due darà gloria l’Olimpio”. Nonostante tutto questo, alla vista di Achille inizialmente Ettore cede e si dà alla fuga. Quando finalmente Ettore resiste e si volge ad Achille, il duello si svolge con straordinaria intensità. I due si gettano l’un l’altro:
tutta coprivan la pelle l’armi bronzee, bellissime,
ch’Ettore aveva rapito, uccisa la forza di Patroclo;
là solo appariva, dove le clavicole dividon le spalle
dalla gola e dal collo, e là è rapidissimo uccider la vita.
Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava,
dritta corse la punta traverso il morbido collo.
Achille vince, Ettore muore. Così la bilancia del destino ha soppesato l’un l’altro. Troia è prossima a cadere. Arrivati a questo punto è utile, per concludere, ricordare il motivo di fondo della rovina di Troia, il quale va ricondotto alla scelta di Paride. Infatti, degli Dei si dice:
sempre avevano in odio, come prima, Ilio sacra
e Priamo e il suo popolo, per colpa di Paride,
che aveva offeso le dee quando nella capanna gli vennero,
e lui lodò quella che gli offrì l’affannosa lussuria.
Chiamato a decidere della contesa fra Era, Atena e Afrodite, Paride opta per quest’ultima. Cosa che fattualmente porterà al rapimento di Elena e quindi alla guerra di Troia, ma questo ha un significato simbolico ancora più profondo. La scelta fra le tre dee è una scelta fra tre possibilità esistenziali. Queste ultime le potremmo identificare con le tre funzioni (sacerdotale, guerriera e produttiva) proprie delle società indoeuropee. Scegliere per l’ultima opzione, la più bassa, è sinonimo di uno sfaldamento interiore. Allo stesso modo, potremmo paragonare la scelta di Paride a quella di Achille, con Paride che tradisce sé stesso e la città decidendosi per una via ignominiosa, quella del soddisfacimento dei piaceri materiali ed erotici, rifiutando la via eroica. Una scelta che, essendo Paride figlio di re, si ripercuote sulla comunità intera, condannandola.
Commenti recenti