Di Nilo
“La riforma non dovrà riguardare solo la seconda parte della Costituzione, ma anche la prima. A partire dall’art. 1: stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla”.
Sono passati poco più di dieci anni dalle parole dell’allora Ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta e culturalmente nulla sembra essere cambiato. Il lavoro è una merce, come può una Repubblica essere fondata su una merce? Il sillogismo liberale espresso brutalmente dal parlamentare berlusconiano sembrerebbe impeccabile, ponendo una pietra tombale su secoli di lotte dei lavoratori finalizzate alla conquista dei diritti sociali garantiti dalla nostra Costituzione.
Questa “cultura” ha invaso anche i trattati che vincolano l’Italia a livello europeo, le delocalizzazioni sono all’ordine del giorno ed i lavoratori (soprattutto giovani) sono sempre più precari. Chi scrive ha avuto la fortuna di poter proseguire gli studi, rimandando l’appuntamento col mondo del lavoro, ma non nasconde un senso di profonda nausea e tristezza verso l’attuale condizione di molti coetanei traditi ed abbandonati da chi non mira al benessere del popolo bensì alla “stabilità della moneta” (art.127 paragrafo 1 e art.3 paragrafo 3 T.U.E).
La mercificazione e la reificazione di ogni aspetto del reale è tipica del XXI secolo e dello Stato minimo liberale che non si dichiara interventista ma osservatore impassibile dinanzi alle disuguaglianze sociali. Tagli continui alla spesa pubblica e austerity: se la scuola o la sanità non funzionano chi se ne duole? A farne le spese saranno solo le classi meno abbienti, le altre avranno il servizio privato!
Quando lo schiavo porta da troppo tempo le catene finisce per non sentirne più il peso, se ne abitua, le ritiene ineliminabili. Quante volte sentiamo le giustificazioni e le mistificazioni dei giornalisti e mass media che supportano il povero imprenditore (spesso datore di lavoro dei giornalisti suddetti!) che ha esercitato il suo diritto costituzionale di iniziativa economica, delocalizzando per pagare meno tasse con annesso licenziamento di migliaia di lavoratori? Per smascherare la menzogna basterebbe leggere anche il secondo comma dell’articolo tirato in ballo “L’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Alla libertà del singolo di stampo anglo-americano va contrapposta la libertà del popolo di matrice fichtiana. Come posso essere libero finché non lo sarà l’ultimo uomo appartenente alla mia comunità di popolo?
Quest’ultima prospettiva di forte stampo sociale è rispecchiata anche nell’articolo 4 della Costituzione. Il lavoro viene presentato non solo come diritto del singolo, da rivendicare nei confronti dello Stato, ma anche come dovere. La nostra Costituzione, ispirandosi alla Carta del Carnaro del 1920 di dannunziana memoria (si veda a tal proposito art. XVII), dichiara solennemente che ogni cittadino ha il ‘dovere’ di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della Nazione. Formula forte, chiara, forse troppo ingombrante per chi vorrebbe uno Stato messo all’angolo dai poteri economici privati.
Questo articolo della Carta Costituzionale è, a mio avviso, uno dei più romantici. Cosa c’è di più nobile di un Uomo che ama il proprio lavoro, dona il proprio sforzo e sacrificio al progresso della Nazione? Il lavoro non è uno strumento per il sostentamento individuale né una merce che frutta profitto da spendere nel consumismo del mercato globale; è il servizio che il singolo cittadino italiano offre con amore incondizionato alla collettività, alla sua comunità, all’Italia. Dovrebbe spiegarmi, Renato Brunetta, come fanno due frasi dedicate ad una ‘merce’ a farmi venire la pelle d’oca.
Il tema lavoro, invero, non svolge un ruolo centrale soltanto in ambito politico ma anche in ambito filosofico: la condizione della classe lavoratrice nel liberalismo ottocentesco ha dato il là ad intuizioni, lotte politiche, dottrine statali. È inevitabile partire dal materialismo storico dialettico di Marx, spettatore impotente di una società in cui pullulano disuguaglianze sociali, ingiustizie, schiavismo. Il filosofo ebreo è apprezzabile nei presupposti ma insostenibile nelle conclusioni: la giustizia sociale non si raggiunge con la lotta di classe o con la dittatura del proletariato; gli slogan internazionalisti periranno nelle trincee della prima guerra mondiale. Più acuta è la volontà di seguire il sentiero che porta al superamento delle classi sociali. Siamo un’unica classe produttrice al servizio della Nazione! In ragione di ciò andrebbero sensibilizzati gli ‘anelli forti’ (leggi ‘imprenditori’) e costruita una struttura che possa tenere insieme le varie anime altrimenti destinate allo scontro frontale.
Marx ha un approccio schiettamente materialista e forse troppo poco “europeo”, sviluppando il tema lavoro in termini razionali (nel Capitale quasi matematici) e mostrando come l’uguaglianza e la fine della alienazione borghese-capitalista si possa raggiungere con un’equa distribuzione del lavoro e delle risorse.
La Stato non deve garantire una razionalizzazione del sistema lavoro al fine di perseguire una formale uguaglianza. Deve, al contrario, elevare il singolo, mettere in risalto la sua funzione all’interno del tutto. Non posso non far riferimento all’approccio idealista di Fichte nella sua opera Stato Commerciale Chiuso (1800), dedicata al ministro prussiano Struensee, per mezzo della quale il filosofo nazionalista si inserisce in modo irriverente nel dibattito sulle riforme economiche del paese.
Nello Handelsstaat fichtiano il lavoro deve essere razionalizzato per permettere ai tedeschi di “alzare gli occhi al cielo”. Non si vuole riformare il sistema del lavoro per abbattere vuote percentuali di sfruttamento della classe operaia, ma per permettere a lavoratori, alienati e distratti dal troppo lavoro, di avere tempo per sé stessi, di riflettere, di ottenere la propria personale realizzazione. È un approccio che evoca una visione verticale della vita: il buon lavoro non è soltanto quello ben retribuito, ma quello che ci lascia tempo per conoscere noi stessi, quello che ci rende Uomini.
Da tale consapevolezza deve partire la rinascita dei nostri lavoratori in un momento storico in cui gli ‘occhi al cielo’ non si ha tempo di alzarli, costretti da indegne classi dirigenti nazionali ed europee al perenne precariato.
È necessaria una rivoluzione culturale che parta dal basso, dai lavoratori, dagli studenti, dalle scuole italiane. Quante volte sentiamo nelle nostre scuole pubbliche insegnanti che orientano il futuro percorso formativo degli studenti in base al profitto? “Questo tipo di studio non ti darà un buon posto fisso” dichiarano senza vergogna. Poveracci.
In una società che reprime ogni slancio vitale, abbiamo il dovere di lasciare Itaca e metterci in viaggio. Non possiamo arrenderci.
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