Di Sergio
Ogni anno arriva il 31 ottobre e la festa di Halloween. Ogni anno, insieme alla festa di Halloween arriva sicura come la morte (è proprio il caso di dirlo) la solita e noiosa polemica “dolcetto o scherzetto si, dolcetto o scherzetto no”. È sempre così: da una parte i plotoni di bambini mascherati e dall’altra i plotoni di epigoni della tradizione tanto al chilo, che sollevandosi sul piedistallo della semi-cultura spandendo odio e astio contro quella che viene accusata di essere una festa d’importazione, un’apoteosi di consumismo, insomma la classica americanata. Sì, ma anche no.
Perché si? Forse è criticabile tutto il circo di mercato e consumo che c’è dietro, forse è criticabile la vendita di gadget, forse è criticabile la partecipazione puramente mondana alla festa senza una vera consapevolezza religiosa, ma a quel punto ci chiediamo: oggi, quale festa non è anche una festa di consumismo? In quale festa vediamo asceti invasati di fede partecipare alle liturgie che non siano un semplice ripetere a menadito preghiere e canzonette? Nessuna, appunto. Perché prendersela proprio con Halloween allora, e non con il Natale, il quale porta in sfilata quello stesso delirio consumista?
Perché Halloween, seppur giunta a noi annacquata e filtrata dai costumi americani (che tutto annacquano e filtrano nel loro setaccio che cerca sempre oro), è pur sempre una festa marcatamente ed irrimediabilmente pagana. E forse proprio per questo piace molto.
Non bisogna mai essere superficiali: magari proprio quelli che fanno l’inquisizione alla zucca sono gli stessi che credono che il Cristo sia nato il 25 dicembre oppure sono gli stessi che si appellano alla civiltà Occidentale e ai valori di tolleranza e democrazia quando un islamico si fa saltare per l’aria in nome del suo Dio. Se proprio volete fare i puri, almeno fatelo fino in fondo… A scanso quindi di questi noiosi soggetti da tastiera pronti ad indignarsi a fasi alterne, ora contro Halloween ora contro i giovani d’oggi, va capita l’origine di una festa popolare che al contrario del Natale non nasconde le sue radici.
Halloween o “All hallows’ Eve” altro non è che la festa celtica di Samhain. Forse festa è un termine improprio e troppo leggero per questo tipo di celebrazioni che arcaicamente non erano solo un momento di raduno (tantomeno a scopo ludico), ma delle vere e proprie porte, che una volta attraversate non segnavano solo la fine e l’inizio di una stagione, ma un vero e proprio passaggio di stato in cui mutavano i pensieri e le azioni degli uomini da un tipo di mondo ad un altro.
Un modo di vivere e di sentire il mondo che le antiche civiltà indoeuropee hanno accordato al ritmo della Natura e al suo eterno ciclo di morte e rinascita. Le porte equinoziali e solstiziali non erano solo un espediente da calendario, ma dei momenti ben precisi, non casuali, in cui l’uomo riusciva ad accordarsi con i cicli cosmici (la Terra e il suo moto di rivoluzione intorno al Sole) per trarne forza ed energia.
Cerchiamo solo per un momento di immaginare questi uomini che riuscivano a vedere il divino nella Natura, senza quella fastidiosa arroganza tutta moderna che ci vuole superiori in virtù della tecnologia a chi ci ha preceduti. Dobbiamo capire che i primi uomini non vedevano il Mondo come lo vediamo noi, abituati come siamo ad averlo a disposizione sul palmo della mano, ma vedevano un altro mondo, un’altra realtà, e non per questo falsa rispetto alla nostra.
Vale sempre in queste occasioni, per meglio addentrarci in una dimensione oggi scomparsa, la riflessione del filologo e scrittore inglese John R.R. Tolkien:
“Guardiamo gli alberi, e li chiamiamo “alberi”, dopo di che probabilmente non pensiamo più alla parola. Chiamiamo una stella “stella”, e non ci pensiamo più. Ma bisogna ricordare che queste parole, “albero”, “stella”, erano (nella loro forma originaria) nomi dati a questi oggetti da gente con un modo di vedere diverso dal nostro. Per noi un albero è, semplicemente, un organismo vegetale, e una stella semplicemente una palla di materia inanimata che si muove lungo una rotta matematica. Ma i primi uomini che parlarono di “alberi” e di “stelle” vedevano le cose in maniera del tutto differente. Per loro, il mondo era animato da esseri mitologici. Vedevano le stelle come sfere di argento vivo, che esplodevano in una fiammata in risposta alla musica eterna. Vedevano il cielo come una tenda ingioiellata, e la terra come il ventre dal quale tutti gli esseri viventi sono venuti al mondo. Per loro, tutta la Creazione era intessuta di miti e popolata di elfi”.
Insomma, se qualcuno dovesse chiederci cos’è una stella, possiamo rispondere con la definizione della Treccani, oppure dire che “Le stelle sono buchi nel cielo da cui filtra la luce dell’infinito” (Confucio). Se lo stesso poi ci dovesse chiedere di mostrargli un cielo stellato potremmo tirar fuori una foto scattata dal telescopio Hubble, oppure indicargli la notte stellata di Van Gogh. È una questione di punti di vista… se noi conosciamo solo quello che deriva dalla tecnica non significa che quello che proviene dal sentimento sia inferiore, o addirittura falso.
Tutto questo per dire che una festa non era solo una festa, ma un vero e proprio momento in cui si concretizzava il divino agli occhi dell’uomo. Samhain era proprio uno di questi momenti.
Secondo il calendario di Coligny, la festa di Samhain cadeva nel mese lunare di ottobre/novembre e segnava la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo. La chiesa cattolica sovrappose a questa festa due celebrazioni, quella di Ognissanti e quella dei Morti: la prima sostituì i “Feralia” dei Romani, la seconda l’antica festa celtica.
Si potrebbe quindi obiettare che anche la Festa dei morti è d’importazione, ma non ci abbassiamo a questi livelli e continuiamo ad andare a fondo.
Per i Celti il giorno cominciava al tramonto del Sole e terminava al tramonto successivo; di conseguenza l’inizio dell’anno doveva coincidere con il periodo in cui il Sole calava. Con il tramonto del Sole estivo, si festeggiava “Samhain“, che significa appunto “tempo della fine dell’estate“. L’anno agricolo era arrivato alla sua conclusione rituale e ogni tipo di lavoro doveva essere ultimato per far posto alle cose nuove e, ad esempio, qualunque frutto del bosco doveva essere lasciato sulla pianta, in quanto dopo Samhain era proibito raccogliere ciò che ormai apparteneva agli spiriti della natura, del freddo e dell’oscurità. Proprio in questa notte si aprivano le “porte” dei confini del mondo visibile e invisibile: l’aria sollevava il velo tra i due alimentando i fuochi e la circostanza diveniva ottimale per le divinazioni e per il contatto tra defunti e viventi.
Era il momento con cui si poteva comunicare con il reame del Sidh (anche detto Annwn), il mondo degli Dèi, degli Elfi e della Fate; era soprattutto il momento in cui il grande scudo della Dea Skathach (“l’ombra vittoriosa”) veniva abbassato per eliminare le barriere tra i mondi, permettendo così ai morti di entrare nel mondo dei vivi.
Gli spiriti dei defunti mantenevano la memoria della propria vita terrena e ciò permetteva loro di tornare tra i vivi, pronti ad accoglierli serenamente per venerarli e adorarli: dopo essere andati a visitare le loro abitazioni, vi soggiornavano per scaldarsi vicino al fuoco e per ritrovare il conforto dei propri cari.
Sempre contro i fanatici della purezza occidentale, ricordiamo che la chiesa cattolica commemora San Martino l’11 novembre. Questo santo, il cui nome significa proprio (udite udite) consacrato a Marte, era nato in Pannonia (terra di stirpe celtica: l’attuale regione austro-ungherese) e fu sostituito ad un Dio venerato dai Pannoni, il quale cavalcava un cavallo nero e portava una mantella corta, la clamide. Era considerato una divinità degli inferi trionfatrice sulla morte, garante dunque del rinnovamento della natura dopo la morte invernale. Il corpo di San Martino fu scoperto proprio da quegli stessi animali che per i Celti erano così sacri da venire considerati messaggeri dell’altro mondo: le oche. O senza andare tanto lontano, fino a pochi anni fa, alla vigilia di Ognissanti, nelle campagne Venete era tradizione preparare dei dolcetti e lasciare socchiuso l’uscio per far entrare gli spiriti buoni dei propri defunti.
Va detto che la morte aveva per i Celti un significato tutt’altro che negativo; il suo culto era basato sulla dottrina dell’immortalità dell’anima (per nulla dissimile dalla dottrina della reincarnazione), per cui la fine non assumeva un ruolo per niente cupo, non essendo la vita una realtà ma solo apparenza.
Dopo il freddo arrivava il tepore della primavera e dopo la morte del corpo la resurrezione. Questo popolo credeva dunque nella legge del rinnovamento, sia del mondo materiale che del mondo spirituale, intesi l’uno come la continuazione dell’altro.
I Romani non avevano una tradizione molto differente, infatti come ricorda Ovidio nel secondo libro dei Fasti, il termine Feralia era etimologicamente legato all’usanza di “portare” (in latino: fero) doni ai morti. Nei Feralia infatti i cittadini romani recavano offerte alle tombe dei propri antenati defunti che consistevano nella consegna, sopra un vaso di argilla, di ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte; erano permesse anche offerte supplementari, ma i morti erano placati solo con le offerte rituali.
Queste semplici offerte per i morti erano state introdotte nel Lazio forse da Enea, che versò vino e pose delle violette sulla tomba di Anchise. Ovidio narra anche di una volta in cui i Romani trascurarono di celebrare le Feralia, perché impegnati in una guerra, così gli spiriti dei defunti uscirono dalle tombe, urlando e vagando per le strade rabbiosamente.
Dopo questo episodio, furono eseguite delle cerimonie riparatrici e le orribili manifestazioni cessarono. Un dolcetto o scherzetto d’altri tempi si potrebbe dire, ma a parte il black humor, questo ci dimostra come seppur giunte in altre forme le tradizioni dei nostri antenati vivono anche nella nostra epoca e ci ricordano, soprattutto, che i vivi devono riconciliarsi con i morti, e per estensione con la morte stessa.
A scanso di storia e spiegoni, dovremmo capire che la morte non deve essere esorcizzata o tantomeno ignorata. In un tempo come il nostro in cui la vita sembra essere un infinito scorrere di giorni, interrotto solo da ciò che tutti cercano disperatamente di evitare come un male assoluto, nascondendosi, evitando pericoli, dimenticandosi di vivere, è necessario capire che il mondo non finisce e non inizia con noi.
C’è chi ci ha preceduto, c’è chi verrà dopo di noi. Parlare con i morti non significa andare per cimiteri o fare macabre sedute spiritiche: significa accogliere ciò che ci hanno lasciato perché non vada perduto. Una riconciliazione che sarebbe utile anche alla nostra Nazione, come noi ben sappiamo: quanti morti senza giustizia, quante tombe mute, quante verità seppellite, quante vite ignorate, quanto odio che ristagna e cova nel profondo?
Non dobbiamo credere che il nostro sia un mondo ermetico, a sé stante. È influenzato dai mondi che l’hanno preceduto e ciò che non si è risolto prima, ciò che non si risolve ora, influenzerà il mondo che verrà. Come ci insegnano i Celti tutto scorre e tutto torna, gli atti di odio come quelli di amore.
Quindi non fate gli stronzi e preparate i dolcetti.
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